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Scrivici |Il tiro navale
- Un tema su cui discutere, su cui riflettere. -
La corazzata Cesare impegnata nello scontro di Punta Stilo (dal settimanale Tempo del 31/7-7/8 1941).
Ringraziamo Vittorio Dini per le immagini gentilmente fornite su Capo Teulada.
Importanza e declino del tiro navale.
Dicono che il tiro navale sia una materia complessa, come dire riservata agli esperti. Tuttavia riteniamo che si possano azzardare alcune considerazioni più logiche che tecniche, da inesperti e quindi accessibili a tutti.
Parlarne è necessario perché le artiglierie nel secondo conflitto mondiale erano la principale arma delle unità maggiori e la Regia Marina dispiegò un notevole numero di incrociatori e corazzate di ottimo livello, con valide bocche da fuoco. Dato l’esito negativo della guerra, molti si attendevano spiegazioni nel dopoguerra: ci furono protagonisti che spiegarono le loro ragioni e altri che le accettarono oppure ritennero di fare delle obiezioni. Si è quindi discusso spesso di questo tema, fino ai giorni nostri, perché l’arsenale di navi e cannoni italiani non conseguì i risultati attesi: furono sparati moltissimi colpi ma ben pochi andarono a segno e comunque non vi fu l’effetto distruttivo che si sperava. Viene spontaneo pensare che agli italiani mancasse qualcosa, secondo una troppo facile tendenza a ipotizzare difetti nazionali come spiegazione.
Prima di addentrarsi in valutazioni e confronti, bisogna sottolineare che nella Seconda Guerra Mondiale il tiro navale si dimostrò per tutti poco efficace (scarsi e rari risultati) e poco efficiente (i successi venivano ottenuti con troppo dispendio di energie), rispetto ad altre armi più vantaggiose. Anche il tiro contro obiettivi costieri riservò molte delusioni nelle operazioni di sbarco. E’ un dato di fatto che nel dopoguerra le navi da battaglia persero il loro primato nelle flotte, quasi sparirono dai mari e il cannone non fu più l’arma principale degli scontri navali.
Problemi generali, non certo italiani.
I limiti delle armi da fuoco
Il tiro navale rientra nella categoria delle armi da fuoco e può esserne considerata la massima espressione tecnologica e organizzativa, pregi e difetti inclusi. Nelle armi da fuoco un proiettile inerte viene lanciato contro il bersaglio da una carica esplosiva. Un meccanismo semplice e sicuro, che ne ha decretato il successo per secoli, applicabile sia per un fucile che per un grosso calibro navale. E’ pure un sistema abbastanza economico per il costo limitato del materiale di consumo (cartucce, cariche, proiettili) ad ogni colpo.
Peraltro ci sono delle limitazioni. La traiettoria del proiettile non può essere modificata una volta partito e la precisione, oltre che la potenza, dipende dall’esplosione di partenza, dove tutto deve funzionare al meglio. Se questo può essere ottenuto in modo accettabile con le armi leggere, può diventare un problema per le artiglierie al crescere del calibro, perché tutto diventa più grande, più difficile da gestire. Se tutto si decide al momento della partenza del colpo, la precisione non può essere governata ma solo osservata a posteriori, per migliorarla: il tiratore al poligono corre a vedere i fori sul cartoncino e l’ammiraglio osserva le colonne d’acqua davanti e dietro alla nave nemica per capire se è sulla buona strada. Questo perché ogni arma, anche se ben tarata, deve essere misurata sul campo, specie se in movimento come avviene sul mare. Tutte le armi da fuoco hanno una portata massima notevolissima, ma la distanza a cui conviene sparare è assai inferiore. E’ molto difficile essere precisi da lontano e l’alternativa per essere sicuri sarebbe sparare a più brevi distanze per ottenere rapidamente dei risultati. Nei combattimenti questo avviene solo in particolari circostanze, quando c’è forte ed evidente disparità fra gli avversari, uno avvantaggiato mentre l’altro è inferiore, colto di sorpresa, più lento, più debole. Ma quando si incontrano antagonisti (navi da battaglia) abbastanza equivalenti, che possono distruggersi, è normale scambiarsi colpi a grande distanza, per studiarsi ed eventualmente cogliere delle opportunità se si presentano: da qui la frequente inconcludenza di questi contatti, il gran numero di colpi a vuoto rispetto ai colpi decisivi.
I limiti del tiro navale
Avevamo già dedicato una pagina introduttiva sugli scontri navali e qui aggiungiamo qualche riflessione.
Ai tipici limiti delle armi da fuoco, il tiro navale con medi e grossi calibri (nella seconda guerra mondiale, con i mezzi dell'epoca) ha delle complicazioni aggravanti. Si tira così lontano che anche stabilire la distanza e posizione reciproca, su cui impostare calcoli e regolazioni, è un problema: tradizionalmente si fanno misurazioni ottiche ma bisogna anche osservare cosa succede, dove cadono i colpi per tarare quelli successivi, oltre che rilevare le variazioni di rotta e velocità. Verifiche e correzioni che fanno perdere tempo, perché la traiettoria di un grosso calibro richiede una attesa di mezzo minuto e non una frazione di secondo. L’intero processo di tiro è costituito da molti passaggi che devono essere tutti perfetti, perché basta una piccola disattenzione, ritardo, inesattezza, per vanificare tutto. Si pensi soltanto alle oscillazioni della nave. Ci vogliono mezzi all’altezza, ma anche personale molto addestrato. Sembra quasi impossibile che si possa colpire il bersaglio.
Se si vuole colpire in modo fatale una grande nave ben protetta, ci vuole un grosso proiettile (circa novecento chili), ovvero un grande e pesante cannone (oltre cento tonnellate), anzi più di uno per avere migliori probabilità: alla fine ci vogliono quarantamila tonnellate di nave e non basta, perché una corazzata non si manda da sola. L’enorme investimento e il costoso mantenimento di questo sistema lasciano perplessi; certamente si volevano avere navi e armi di questo genere anche per motivi di prestigio, per le minacce implicite e l’autorevolezza internazionale.
Tuttavia nella seconda guerra mondiale il sistema del tiro navale si confrontò anche con ordigni dotati di propulsione e governo come i siluri e i primi tipi di missili (razzi, bombe guidate, ecc.). Queste armi permettevano di essere trasportate da mezzi aerei, navali, subacquei, piccoli ed economici per arrivare a tiro, rendendo possibile moltiplicare il numero dei portatori e degli attacchi, incrementando le probabilità di successo con spesa limitata. Inoltre, applicando agli ordigni dei sistemi di autoregolazione o di guida (a distanza o con ricerca autonoma del bersaglio) c’era il tempo per correggere sul momento la traiettoria fino a garantire il risultato, senza dipendere dall’accuratezza preliminare del lancio: ovvero erano sistemi più semplici e sicuri perché dipendevano da meno variabili. Invece nelle artiglierie navali il sistema ha moltissime componenti con impegnativi fattori tecnici e umani da controllare.
Se il tiro navale è un sistema complesso, bisogna notare che la complessità non è mai un pregio: è al massimo un prezzo da pagare per conseguire risultati ambiziosi. La complessità comporta elevati rischi di inaffidabilità. Se la complessità rende materialmente impossibile essere perfetti, si può provare a contenerla individuando e curando le cause primarie di errore (o di successo) rispetto a quelle marginali, e la difficoltà sta soprattutto nel distinguerle. Forse chi riusciva a cogliere migliori risultati dagli scontri navali non era perfetto o dotato di un tiro migliore, ma solo più esperto e abile nello sfruttare i fattori più importanti in quel contesto, più capace di creare situazioni a lui favorevoli. Ad esempio, ridurre le distanze, sapendo di essere addestrati a farlo, in alcuni casi poteva essere più determinante delle trascurabili differenze tra armi navali britanniche e italiane.
Tiro britannico contro le navi italiane a Capo Teulada. In basso accostata del Bolzano. Collezione Dini.
Le artiglierie navali italiane
Tra le due guerre mondiali l’Italia sviluppò una grande Marina con le relative armi, cercando l’autosufficienza nazionale invece di dipendere dall’estero. Fu quindi necessario cimentarsi con difficoltà di fornitura, produzione, progettazione. Nonostante tutto vennero raggiunti risultati notevoli ma non ci furono molte occasioni di sperimentare a fondo mezzi e soluzioni in un contesto reale, prima della seconda guerra. Era anche difficile trovare dei compromessi tra esigenze contrastanti. Le armi navali di vario calibro (corazzate, incrociatori, naviglio sottile) risultarono così più o meno riuscite, talvolta con difetti di non facile eliminazione o con scarsità di tempo per trovare alternative e correzioni. Non ci addentriamo in una descrizione di ogni arma, per la quale suggeriamo il compatto ed esauriente testo di Bagnasco: "Le armi delle navi italiane, nella seconda guerra mondiale" (Albertelli editore – 1978). In particolare, per i calibri delle corazzate (381 e 320 mm) e degli incrociatori (203 e 152 mm), usati in diversi contatti col nemico senza grandi risultati, nel dopoguerra si è parlato di un tiro impreciso nonostante l’impegno degli equipaggi e le prestazioni teoriche delle armi. Sarebbe stata una giustificazione della scarsa efficacia negli scontri navali, spostando la responsabilità dagli utilizzatori ai fornitori. Ma è lecito chiedersi la fondatezza di queste valutazioni.
Le salve italiane avevano una dispersione eccessiva?
Alle massime distanze i proiettili partiti assieme (la salva) arrivano più o meno lontani fra loro. La salva è come una nube di colpi che ha un centro ideale e la “dispersione” della salva è in sostanza la distanza media da questo centro. L’eccessiva dispersione ne diminuisce l’efficacia per la minore probabilità di cogliere il bersaglio. Secondo alcuni esperti un minimo di dispersione sarebbe però necessaria per osservare meglio la caduta dei colpi iniziali e verificare la distanza (si può farlo vedendo colonne d’acqua “a cavallo”, di qua e di là dal bersaglio, ovvero si riesce a farlo se la salva non è troppo concentrata). Ma è forse un vantaggio iniziale che si paga dopo, nei troppi tentativi per arrivare a colpire. Ci chiediamo infatti a cosa serva avere subito a cavallo una salva larga trecento metri e quanto tempo ci si metta poi per colpire qualcosa con salve che hanno così tanta acqua tra i colpi. A buon senso ci sembrerebbe meglio avere sempre salve ben raggruppate.
In effetti nelle fotografie delle salve britanniche si vedono tutti i colpi vicini fra loro, sui cento metri per intenderci, mentre in alcune immagini italiane si vedono alcuni colpi troppo distanti. Le salve raggruppate del Sidney che si avvicinano al povero Colleoni fanno venire i brividi. E non si è mai approfondito cosa sarebbe successo alla Cesare a Punta Stilo, se non cambiava rotta dopo essere stata colpita. Quando una salva britannica cadeva centrata, a cavallo del bersaglio, c’era da preoccuparsi.
Ma chiediamoci ora l’origine della dispersione. Questo sparpagliamento può essere originato dalla variabilità del munizionamento (es.piccole differenze nel peso, considerate accettabili entro certi limiti di tolleranza in fabbricazione, fissate dai capitolati) o da variazioni provocate dalle armi e dal loro uso: meccanismi, interferenze, imprecisioni. Secondo i britannici il tiro italiano era “inizialmente ben centrato ma poi peggiorava”, giudizio lapidario e abbottonato. Lo osservavano non per future dissertazioni davanti a un tè, ma per capire in quel frangente la pericolosità e i margini di rischio che correvano, per decidere come comportarsi: avvicinarsi o meno. Questo sembrerebbe indicare che nella prima fase di misurazione della distanza e regolazione dei cannoni per sparare a quella distanza, gli italiani avevano fatto un buon lavoro (sia preparatorio che in azione). Però anche se la salva era centrata (intorno al bersaglio), poteva essere sparpagliata, condizionando l’esito dei colpi successivi. A parte la dispersione, può anche darsi che, nella rapidità e sollecitazione imposti dal combattimento, qualche passaggio, legato all’addestramento, ai metodi o agli strumenti usati, non funzionasse come dovuto o fosse meno preciso, con effetti degradanti o senza progressi. Da parte britannica non si poteva dire molto di più sulle cause di imprecisione italiana e si limitavano a correre il rischio. Anche da parte italiana non si hanno molte informazioni per una diagnosi sicura e soprattutto obiettiva, cioè non basata su sensazioni o finalizzata a giustificazioni convenienti. Da varia documentazione sulle prove di tiro, analizzate di recente (es. sulla rivista Storia Militare), gli esperti dicono che la dispersione delle salve italiane fosse abbastanza normale, non così distante da quella di altre Marine. Dunque le cause di eventuali imprecisioni di tiro dovrebbero essere anche altre e non così semplici, come nella versione predominante dei fatti affermatasi nel dopoguerra. Senza sposare un punto di vista, si può ritenere che ci fosse ancora del lavoro da fare. L’Ammiraglio Da Zara nella sua autobiografia criticò le resistenze a fare vere esercitazioni di tiro, non fermi in porto, ma in navigazione alle massime andature, senza alcun risparmio di carburante e munizioni, nelle condizioni limite più vicine a quelle reali di combattimento. Comunque anche i britannici sapevano quanto fosse difficile essere perfetti nel tiro, nonostante il più accurato e intenso addestramento. Secondo l’Ammiraglio Cunningham, in guerra risultò evidente a tutti che solo riducendo le distanze si ottenevano risultati.
Incrociatori italiani sotto tiro a Capo Teulada. Al centro una salva britannica, certo raggruppata. In basso il Trieste, alla massima andatura, sfiorato da un colpo britannico. Collezione Dini.
Nella realtà della guerra.
Il tiro inglese era superiore?
In generale si può dire che i casi in cui le artiglierie britanniche colsero successi rispetto a quelle italiane, non sembrano dovuti tanto alla migliore qualità del tiro ma piuttosto a favorevoli situazioni tattiche e strategiche che i britannici erano riusciti a creare, o che gli italiani avevano permesso. Vediamo alcuni esempi, scusandoci per le semplificazioni.
Affondamento dell’Espero.
Nei primi giorni di guerra 3 caccia italiani carichi di materiali e truppe per il nord Africa vennero intercettati e attaccati con le artiglierie da un gruppo di 5 incrociatori nemici che riuscirono ad affondare l’Espero. Il tiro britannico e australiano fu sostanzialmente inefficace alla massima distanza e fu comunque necessaria una esagerata quantità di colpi prima di avere ragione dell’Espero, che si sacrificò contrastando il nemico e permettendo agli altri caccia di salvarsi. In sostanza da parte britannica vi fu un tiro mediocre. Da parte italiana, fu un errore l’uso di vecchi cacciatorpediniere come trasporto perché ne rallentò la velocità tanto da impedirne la fuga.
Si veda la pagina sull'Espero
Affondamento del Colleoni – Capo Spada.
Due incrociatori leggeri italiani inseguivano caccia britannici quando incontrarono una forza navale avversaria, ritrovandosi in svantaggio. Accettarono il combattimento, ma il Colleoni fu colpito e immobilizzato dalle artiglierie dell’incrociatore Sidney e poi finito dai caccia britannici, mentre il Bande Nere fuggì. Non vi fu una evidente superiorità del tiro, perché alla fine dello scontro vi furono colpi a segno da entrambe le parti, e la differenza fu soprattutto nell’effetto. Era stato un errore strategico realizzare incrociatori leggeri e veloci, ma poco protetti, vulnerabili come fossero dei caccia. Però sembrando esternamente degli “incrociatori” e avendo armi di tale calibro , l’onore imponeva di battersi contro altri “incrociatori”, mentre avrebbero fatto meglio a ritirarsi e sviluppare la velocità per cui erano stati concepiti: il Bande Nere si salvò così, riuscendo anche a colpire l’inseguitore.
Si veda una pagina in cui si parla del Colleoni.
Colpo sulla Cesare - Punta Stilo.
Incrociatori e navi da battaglia italiane e britanniche si trovavano nel centro del Mediterraneo impegnate in attività di scorta, ma le navi britanniche andarono a cercare quelle italiane e chiusero loro la via del ritorno a Taranto. Nei vari scambi a fuoco e nel ridurre le distanze da parte britannica, arrivò un colpo sulla Cesare. Le navi italiane si ritirarono, rifugiandosi in altri porti. Un solo colpo fra tanti non permette di stabilire se fu fortuna o abilità nel tiro navale, lo dicono anche i britannici. Qui la superiorità britannica fu piuttosto nell’iniziativa, nell’aggressività, nel vantaggio psicologico e tattico, e infine nel ridurre le distanze di tiro per cercare risultati, tutte cose che quel giorno mancavano da parte italiana, chiunque ne fosse il responsabile e qualunque cosa potessero fare le artiglierie. Anche se lo scontro fu balisticamente insoddisfacente per entrambe le parti, i britannici ne avevano ricavato maggiore fiducia nel loro approccio mentre gli italiani scoprivano le loro insicurezze (tra cui dominava la sfiducia nella propria aviazione).
Si veda la pagina su Punta Stilo
Scontro di Capo Teulada.
La squadra italiana uscita per intercettare forze britanniche vicine alle acque nazionali, decise alla fine di “non impegnarsi” nonostante avesse potenzialità favorevoli. Le navi italiane in ritirata si trovarono così a duellare con quelle britanniche attaccanti mostrando loro la poppa, allontanandosi grazie alla maggiore velocità. Fu uno scontro soprattutto fra incrociatori con pochi effetti, a parte danni all’incrociatore Berwick e al caccia Lanciere (poi rimorchiato), con una sostanziale parità nei risultati del tiro navale, compiuto a distanze elevate e crescenti fino a interrompersi. Per l’Ammiraglio Somerville il tiro italiano fu inizialmente preciso e poi impreciso nella fase finale. Per l’Ammiraglio Campioni il tiro britannico non fu ordinato ed efficace, benché raggruppato. Iachino notò la maggiore compattezza delle salve britanniche rispetto alle nostre, a fronte di una condotta del tiro inconcludente e certo non superiore a quella italiana. Ritenne che i britannici fossero meno allenati al tiro a grande distanza, rispetto agli italiani, anche se bisogna dire che il nemico disponeva mediamente di calibri con minore portata (152 vs 203 mm), che erano quindi più al limite. Ma è interessante notare che Iachino segnalò la tendenza italiana (ampiamente dimostrata nei comportamenti) a preferire il tiro alle massime distanze, forse perché si riteneva di essere avvantaggiati da alcune prestazioni di portata superiore. Ma erano anche condizioni che esasperavano le dispersioni delle salve, mentre i britannici preferivano accorciare le distanze, cosa che a Capo Teulada non fu loro possibile.
Il disastro di Capo Matapan.
Solo i britannici poterono usare le artiglierie quella notte. Le avevano anche gli italiani, ma di notte non le usavano mai. Mancavano loro informazioni chiare sulla vicinissima presenza del nemico, e si mossero esponendosi troppo per salvare una nave che era meglio abbandonare al suo destino. Come se queste manchevolezze non bastassero, i britannici erano oltretutto bene informati sui movimenti degli italiani, sia con la ricognizione che con la decifrazione. Fu la situazione assurda e le molte cause che l’avevano creata a provocare la perdita delle navi. I massimi risultati britannici furono ottenuti con le artiglierie, ma certo non vi fu alcuna abilità nel tiro ravvicinato.
Si veda la pagina su Matapan
Scontri notturni.
Incrociatori leggeri e cacciatorpediniere britannici colsero molti successi di notte con le artiglierie affondando molti mercantili e navi da guerra italiane. Ma anche qui non fu merito del tiro navale in sé, ma piuttosto del radar, per individuare le navi, posizionarsi, avvicinarsi, e talvolta anche dirigere il tiro. Non sbagliavano perché potevano tirare da vicino, grazie al fatto che le navi italiane erano cieche di notte e non potevano rispondere alla pari. Si erano anche allenati al tiro notturno, e sapendo che l’avversario lo escludeva a priori, cercavano proprio il buio come fattore vincente.
Circa la ulteriore evoluzione delle artiglierie asservite al radar, cogliamo l’occasione per osservare che all’epoca il radar poteva anche non permettere una direzione precisa del tiro alla massima portata, come si poteva ottenere con i metodi ottici diurni e tradizionali, ma la notte permetteva di avvicinarsi quanto serviva. Per i britannici l’abbinamento di nuovi strumenti apriva nuove opportunità tattiche. Pare che invece esperti e comandi italiani (pensando al solo tiro diurno) escludessero a priori l’uso di un radar nel tiro navale per l’insufficiente precisione a grande distanza.
Si vedano le pagine sugli Attacchi notturni
Mezzo giugno 1942.
Nella grande battaglia aeronavale vi furono due veri contatti a fuoco tra le navi, che si avvicinarono reciprocamente. Il preciso tiro degli incrociatori italiani portò alla perdita del coraggioso caccia Bedouin, finito poi da un aerosilurante. Nell’altro scontro dei caccia, nonostante il vantaggio britannico di 5 contro 2, fu colpito solo il Vivaldi, mentre il Malocello riuscì a proteggerlo uscendone indenne. Quindi nutriamo grande rispetto per la combattività britannica ma non si può parlare certo di superiorità del tiro navale britannico.
Si vedano le pagine su Vivaldi e Malocello e sul Bedouin
Potremmo continuare, ma in generale risulta evidente che le situazioni tattiche e strategiche contarono più delle differenze nelle armi navali e nel loro uso. Se poi allarghiamo il discorso ad altri celebri contatti balistici con effetti tangibili, dalla battaglia del Rio della Plata alla vicenda della Bismarck, dobbiamo ammettere che i bilanci finali di questi confronti bellici furono spesso condizionati dalle mosse appropriate più che dalle armi. Contro la Admiral Graf Spee l’aggressività dimostrata compensò l’inferiorità di calibro. Contro la Bismarck fu meglio mandare fragili aeroplani col siluro che non un incrociatore da battaglia. Nel Mediterraneo la perdita della Barham e della Roma, i danni alla Valiant e alla Queen Elizabeth, furono ottenuti non col tiro navale ma con mezzi insidiosi o con dispendio limitato, mostrando che i tempi erano cambiati e le grandi navi da battaglia stavano diventando obsolete assieme al loro affascinante tiro navale.
Immagine significativa di cui parliamo nel testo. Salva non centrata ma molto raggruppata dell'Incrociatore Sidney, vicina all'Incrociatore Colleoni, a Capo Spada, ore 7.40 circa (un'ora dopo il Colleoni affondava). Da "Navi e Marinai italiani nella seconda guerra mondiale", di Andò e Bagnasco - Ed. Albertelli.
Considerazioni finali
La sensazione è che il tiro navale italiano avesse delle imprecisioni, specie se si voleva combattere alle grandi distanze, come era nelle preferenze dei comandi italiani. Ma non era inferiore a quello dei britannici, che preferivano serrare le distanze, se vi erano le condizioni per farlo. Si potrebbe dire che il nemico colse maggiori successi con le artiglierie non per una maggiore qualità del tiro navale, ma per la capacità di sfruttare al meglio le situazioni.
Quanto detto è soltanto l'opinione personale che ci siamo fatti.
In fondo il tiro navale, nonostante la sua elevata complessità, era soltanto un’arma da usare nel modo migliore, al momento giusto e in condizioni favorevoli, scegliendola prontamente all’interno di un insieme di armi disponibili. Faceva quindi parte di un sistema più ampio che andava manovrato al solo fine di conseguire risultati bellici utili, con la massima libertà decisionale da parte di chi portava la responsabilità di comando. Ci sembra che questa impostazione coincidesse più con la visione britannica che con quella italiana, dove vi erano dei pericolosi vincoli predefiniti. Ad esempio, l’autorità centrale di Supermarina a terra vincolava in modo abbastanza stretto il Comando in Mare, rendendo direttive e ordini meno tempestivi e sensibili delle mutevoli circostanze e delle intenzioni dei combattenti, oltretutto con una lentezza nel comunicare che impediva qualsiasi “dialogo” (domanda-risposta-nuova domanda) che sarebbe stato indispensabile con la divisione di responsabilità in due parti. Anche la separazione di competenza tra Regia Marina e Regia Aeronautica aveva ulteriori problemi di comunicazione e attivazione, penalizzando la reazione a eventuali cambiamenti imprevisti, dove si volessero impiegare altre forze, o semplicemente poter rispondere nelle battaglie, secondo il loro evolversi, non prevedibile a priori. Se è vero che la fortuna premia gli audaci, questi devono essere in grado di decidere e fare da soli, perché con tante teste si finisce per trovare l’unanimità solo nella prudenza, invece che nell’azione. Nonostante le migliori intenzioni, non si riusciva a ottenere quello che si giudicava necessario e non conveniva cogliere opportunità che si manifestassero sul momento, ovvero ci si trovava in situazioni che si potevano evitare o si perdevano delle occasioni che non si sarebbero ripresentate. Erano queste limitazioni che potevano compromettere l’esito di uno scontro aeronavale e non tanto qualche differenza nelle prestazioni del tiro navale rispetto all’avversario. Dunque non ci sembra il caso di enfatizzare le eventuali lacune che potevano avere le armi navali italiane, ovvero non è lì che stanno le spiegazioni di un uso insoddisfacente della Flotta italiana. E’ comunque giusto continuare a studiare, discutere e fare chiarezza sull’argomento, per una corretta valutazione storica.
Oltre al già citato "Le armi delle navi italiane", esiste un gran numero di saggi (vedasi la nostra bibliografia) dove si tratta il tiro navale, all'interno della descrizione delle azioni navali. Esistono anche numerosi articoli più focalizzati sul tema, usciti sulle riviste specializzate, di non facile reperibilità.
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