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Scrivici |Storia di un marinaio - II
- Avventure sui sommergibili e sulle navi prima del conflitto -
Vita pericolosa, ma stimolante. Il progresso, le novità, con tutti i loro rischi erano una sfida, anche per mio padre. Passeggiava sul fondo con i primi rozzi respiratori a ciclo chiuso, con l'aria filtrata, sempre quella. Saltò il tappo del filtro e la calce sodata finì nei polmoni. Resistendo al fuoco e alla tosse sganciò i piombi ai piedi e risalì. Ne avrebbe riportato lesioni lievi ma permanenti. Quando ho preso il brevetto di sommozzatore, molti anni fa, ho avuto tra le mani anch'io quei respiratori ad ossigeno e calce sodata. Riuscivamo a respirare in cinque passandoci il boccaglio. Semplici ed efficaci: sono ancora attuali perché non fanno rumore e non lasciano bollicine rivelatrici. Ma sono pericolosi, se si bagna il filtro, o non ci si ricorda di arricchire l’ossigeno, si sviene senza accorgersene. Immaginate che strage farebbero dei subacquei improvvisati che vanno alle Maldive e fanno il corso di un giorno. Così nessuno oggi può usarli. Altri tempi. Dopo l’incidente, mio padre con l'aria viziata del fondo aveva chiuso. Certamente la tragedia del sommergibile F.14, a cui aveva assistito da vicino, gli aveva lanciato un segnale. Ma aveva anche capito che bisognava elevarsi e che lo studio, il diploma di perito industriale, era indispensabile. Come sottufficiale, era ora imbarcato su un incrociatore: il Trento. Esperienza, calma , lucidità ed anche un certo stile (come ogni marinaio che si rispetti). Me lo vedo con la bianchissima uniforme estiva, che torna di corsa dalla libera uscita e cerca di salire sulla lancia che dovrebbe riportarlo a bordo. Ma questa si è già staccata dalla banchina, e lui rimane a gambe aperte. Con molta classe, lancia il candido berretto con la visiera dentro la lancia. Un secondo dopo cade nell'acqua oleosa del porto.
Il fascino della divisa: difficile resistere. Mia madre apparteneva alla famiglia più in vista di un paese toscano, i primi ad avere il telefono, l'automobile. La villetta troneggia nel centro, davanti al gigantesco mulino, proprietà familiare. A pianterreno gli uffici, con vetri molati, vecchie scrivanie di legno scuro. La cassaforte, il pianoforte, i soffitti affrescati, frammenti che non so più se esistano. In alto la terrazza coperta dal glicine e la vista sul torrente frusciante, dove mi immagino mia padre e mia madre a tentare di conoscersi, a farsi promesse. A sera lui sarebbe tornato via sulla motocicletta scoppiettante. Mia madre oltre che un buon partito, era veramente carina, testa dura e vivace. Cosa poteva offrirle un semplice sottufficiale di marina? Certo per attrarla doveva avere alcune delle qualità che ho conosciuto anch'io. Forse la grinta, l'intraprendenza, oppure l'intelligenza determinata, o magari la sincerità, la correttezza. Intuisco che ci voleva qualcosa di più, dei risparmi, un'impresa preclusa agli altri, un po' di gloria.
Eccolo quindi che parte per la Cina. Forse non ci rendiamo conto cosa voleva dire andare fino in Cina, per mare, in mondi ancor chiusi agli stranieri. Fa un certo effetto vedere la stupenda sagoma del Trento, ad un passo dalle giunche. Però che flotta aveva la Marina italiana! Ce la ammiravano tutti. Il Trento era nato solo cinque anni prima dai cantieri di Livorno. Sarò di parte, ma le navi francesi, inglesi, americane che vedo nelle foto, mi sembrano meno eleganti al confronto. In Estremo Oriente conobbe altre persone, di tutte le nazionalità, anche giapponesi. Fece amicizia. "Uno era di Nagasaki. Non l'ho più sentito, dopo la guerra." mi disse, senza voler aggiungere altro. Ho alcune foto di quella città, automobili, gente, donne in costume, il panorama. “Nagasaki, Giappone”, una città come tante. Nel ritorno, è sulla brandina a lottare col caldo dei tropici. Ora che aveva trovato la fidanzata giusta, doveva trovare il modo di conciliare la vita marinara con la famiglia. Per fortuna lo studio, l'esperienza, la volontà e la competenza tecnica gli vennero in aiuto. Si dedicò alle armi subacquee, divenendone specialista. Non più imbarcato, lavorava a terra nelle officine, sui siluri di cui eravamo maestri. Dimenticati nelle camere di lancio, o appesi sotto un aereo, dovevano funzionare all'improvviso come orologi, portando velocissimi quintali di tritolo a pelo d'acqua contro il bersaglio. Gioielli di meccanica, dovevano essere eccellenti ed affidabili, visto che uomini rischiavano la vita e talvolta la perdevano, pur di lanciarli. Era necessaria una collaborazione perfetta, senza presunzione ne trascuratezza tra l'ingegnere, il capofficina, gli operai. Coinvolgimento, costante miglioramento, ripetibilità dei risultati raggiunti: esattamente quello che si insegna nelle fabbriche di oggi con mediocre successo. Le altre nazioni li compravano dagli Italiani per studiarli ed imparare a costruirli. Ci voleva passione. La meccanica è una scienza umana: si vede e si capisce. Ti avverte quando si sta per guastare. Si può riparare. Bellezza, semplicità, affidabilità vanno a braccetto. L'inventore è anche artigiano, e viceversa. Non è l'elettronica. Questa umana passione per la meccanica mio padre me l'ha trasmessa. Mi ha insegnato a lavorare i metalli, a saldare, a usare gli utensili. Avreste dovuto vedere gli amici quando hanno visto la mia prima custodia fotografica subacquea, in ottone cromato e guarnizioni toriche. Ammetto che la tecnica fa sentire superiori. Come capisco mio padre! Nubi nere si avvicinavano all'orizzonte, e mio padre aveva molto da lavorare, ma a terra. Mio padre e mia madre riuscirono dunque a sposarsi.
Lei leggiadra, nell'abito bianco lo guarda con occhi felici. Lui nella divisa impeccabile, spada e cappello bianco sulle ventitré, ricambia lo sguardo con uguale intensità. Dio mio, che sguardi. Mi emoziono sempre quando osservo con attenzione la foto incorniciata. Intorno le famiglie sono vicine, eppur lontane, incantate come di fronte ad una apparizione, occhi lucidi per l'emozione. Poi suo fratello che la bacia in fronte commosso. Furbi industriali toscani e vigorosi contadini veneti conversano sorridenti. La folla del paese. Il sagrato e la chiesa sono gli stessi, di tante ricorrenze, di tanti tristi funerali, crocevia dove incontro ancora parenti dimenticati quando eventi di vita ci chiamano a raccolta. La moglie doveva seguire il marito, e mia madre si preparava a farlo nei limiti del possibile tra l'Arsenale di La Spezia e le altre basi dove il dovere lo chiamasse. Allora usavano i bauli, e mio padre aveva costruito con le sue mani un baule-armadio in compensato marino e alluminio, con gruccette smontabili, cassetti, manigliette pieghevoli, cappelliera, e naturalmente anche dei nascondigli. Conoscendola, sono certo che anche mia madre avrà voluto partecipare alla progettazione. Mia madre doveva volerlo proprio quell'uomo, per lasciarsi dietro famiglia, benessere, tranquillità. Forse desiderava anche sottrarsi alla matrigna, ai divieti, alla inevitabile competizione con fratelli e parenti. Qualche volta, ritornando nella casa paterna con me, ha aperto il pianoforte e abbozzato con le mani agili un motivetto che riconoscerei tra mille. Si scusava di non aver continuato a studiare e subito chiudeva il pianoforte, lasciandomi a guardare le mie mani così simili alle sue. Ripensandoci, potrei anche non esistere. La vita è così fragile, basta poco per interromperla e con lei la discendenza. Mio padre è andato tante volte vicino alla morte.
Era in navigazione nel canale di Sicilia, e stava controllando da solo delle riparazioni su di una passerella a fianco della murata. All'improvviso un cavo cedette e lui precipitò in mare. Evitò le eliche, ma nessuno si era accorto di niente, nemmeno delle grida. Chissà che disperazione nel vedere la nave allontanarsi. Buon nuotatore, si reggeva bene a galla, ma si chiedeva quando si sarebbero accorti della sua assenza, quando avrebbero iniziato le ricerche, e se lo avrebbero mai trovato. Avete presente quanto è grande il mare? Da dentro sembra ancor più grande. Probabilità zero. Scese la notte, e vedeva le luci lontane della costa. Tentò di nuotare, ma la corrente del canale era forte e lo portava al largo. Sfinito, si stava addormentando e fu salvato da alcuni trucioli di legno che lo punzecchiarono, come pesci che stessero per assaggiarlo. Bravi marinai gli italiani. Rotta precisa, calcoli precisi, anche per cercare un ago in un pagliaio. Mentre la nave doveva proseguire, delle lance lo cercavano e proprio all'estremo limite lo trovarono. Poi si perse anche la lancia nella notte nera, ma tutto finì bene.
Così mio padre poté avere discendenza. Non era più un ragazzino, di mare ne aveva fatto abbastanza, e gestire una officina a terra permetteva una vita accettabile. Fu così che nacque mio fratello. Ma mio padre era sempre in Marina: ogni tanto una corsa in motoscafo d'alto mare per correre dietro ai siluri in prova.
Ora il libro delle foto contiene torpediniere, navi appoggio, piccoli natanti. Certo gli incrociatori sono un’altra cosa, ma l’appellativo “Regio” davanti ad ogni nome, ricorda l’appartenenza alla grande famiglia. A La Spezia il panorama è bello e gli scorci non mancano. I miei genitori conobbero un pittore solitario. Che strani quadri però: dipinti classici, sempre con uno stile diverso. Non sembrano dello stesso autore. Negli anni mi ero dato una spiegazione del mistero: mi sono convinto che fosse un falsario. Forse erano solo fantasie di ragazzo, ma certo era bravissimo. Ho avuto modo di conoscerlo, schivo, generoso e triste, con una casetta sul promontorio, una vista meravigliosa, una lunga scala per arrivarci. Seppi in seguito che aveva perso l'unico figlio, proprio della mia stessa età. Ebbe un profondo e duraturo legame con i miei, famiglia nascente ed errante. La vita poteva essere davvero normale e felice. Era però un brutto anno, il 1939 e il mondo si stava incendiando. Com'era potuto succedere? Non bastava già una grande guerra per togliere la voglia di farne una seconda?
Una fotografia di un quadro del nostro amico pittore, forse raffigurante la battaglia di Punta Stilo.
Continua...
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