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Scrivici |Storia di un marinaio - III
- In guerra -
La gente delle città, i marinai sulle navi, si trovarono all’improvviso in guerra. Mia madre col bambino tornò precipitosamente al paese dei suoi, perché gli arsenali militari non erano luoghi raccomandabili. Al primo bombardamento mio padre era su un sommergibile alla fonda a fare assistenza. Subito la "rapida". Ma sott'acqua il battello non rispondeva ai comandi, non andava giù, non si muoveva. Il giovane comandante insisteva a dare ordini, ma non c'era niente da fare. Si sentivano già le prime bombe lontane, il cui scoppio si trasmette sott'acqua tanto bene, troppo bene. Fuori il periscopio. Videro che la boa dietro il sommergibile si inabissava ad ogni accelerata. Nel panico, nessuno aveva sciolto l'ormeggio. Dovettero attendere la fine del bombardamento. Da quel giorno, ad ogni allarme mio padre aveva una inseparabile bicicletta con cui fuggire in campagna. Questa guerra sarebbe stata diversa da tutte le altre e non sarebbe durata poco, come sembrava all'inizio. Dopo tre anni di disagi e privazioni, non era ancora finita.
Mentre gli eserciti lottavano, anche la popolazione civile conduceva la sua lotta quotidiana per sopravvivere, con una crescente scarsità di beni e generi alimentari. Ho in casa una strana coperta a quadri, lana che buca, colori grigiastri: tutti la notano perché non si vede niente di simile oggi. Erano pecore della guerra, striminzite e vagabonde, che vennero tosate. Alla meglio si cercò di lavorare la lana, e anche di tingerla: grigio, grigio-marrone, grigio-rossiccio. In questa puntigliosa raffinatezza di mia madre, di avere tre gomitoli ma di colori diversi, con un capo tanto rustico, io intravedo la volontà di non lasciarsi andare come bruti, l'ostinazione di non perdere la dignità estetica, anche nelle difficoltà.
Nelle officine ormai mancava tutto, e mio padre smurava ogni mese un gradino di ferro di una scala. Li trasformava a martellate nelle lunghe chiavi necessarie per accedere all'interno dei siluri. Aveva anche inventato un congegno per utilizzare i siluri andati fuori bersaglio, ma non ci sarebbe stato il tempo di mettere in pratica l’idea.
Con sorpresa di tutti, l’Italia si ritrovò all’improvviso senza Duce e sembrava che questo significasse la pace. Ma con armi e truppe su tutti i fronti, e con un alleato scomodo, non poteva trasformarsi di colpo in un paese neutrale. Arrivammo dunque all’armistizio che fu un vero dramma: lungi dal concludere la guerra, aprì la fase più dolorosa del conflitto, trasformando il paese in un campo di battaglia. Le città erano soggette ai bombardamenti dei liberatori. La nostra città aveva avuto migliaia di morti, ferite nel centro storico e sulla piazza del duomo. Il paese di mia madre era invaso da una moltitudine di "sfollati", affamati e vagabondi. In quel periodo caotico, il grande mulino di famiglia venne assalito dalla gente convinta che contenesse la farina. Dentro vi erano invece nascosti macchinari e strumenti pronti per macinare il primo carico di grano che non si vedeva da mesi , il camion smontato per andare a prenderlo. Era il lasciapassare per la speranza, sottratto alle requisizioni. Un saccheggio avrebbe distrutto tutto. Ma gli uomini di famiglia erano altrove, e mia madre cercò di fermare la folla. Fece entrare solo i caporioni perché vedessero con i loro occhi. Spinse con maligna soddisfazione giù per la botola la più scalmanata delle donne. Alla fine tutti si quietarono.
Il mulino era dunque salvo, e ci si chiedeva quando sarebbe passato il fronte liberando tutti da quell'incubo. Ma gli americani non erano per la guerra lampo come i tedeschi, e preferivano rovesciare bombe a tonnellate prima di avanzare. Così all'improvviso quella valle affollata vide arrivare aerei in picchiata. La prima bomba esplose nel torrente con la gente che fuggiva. Mia madre afferrò mio fratello e corse via. Fu sbattuta contro l'ingresso dall'esplosione della seconda bomba. Si sentivano le mitragliate che falciavano chi correva per la strada. Cominciavano a salire per le balze coperte di olivi , seguendo un fosso, quando videro una bomba scendere dritta verso di loro. Immagine scolpita per sempre nei loro ricordi, l’ordigno sospeso nell'aria, al rallentatore. In modo irreale passò sopra le loro teste, quasi seguendo la curva del monte e sparì giusto dentro al paese, vicino a casa. Nell'esplosione sarebbero morti amici e conoscenti. Un’altra bomba centrò la via del cimitero, in salita, piena di gente in fuga, tra alti macigni che ne ampliarono l'effetto. Finì tutto rapidamente, i rombi che si allontanavano lasciando silenzio, grida, lamenti. Mia madre imparò sul campo a fare l'infermiera, senza medicinali, solo acqua calda e fasciature. Era facile morire dissanguati o con ferite curabili.
Attacco francamente inspiegabile e inutile dal punto di vista militare. Bombardamenti senza ragione avvenivano spesso. Alla fine tutti hanno sofferto, nessuno è uscito indenne.
Scheggia metallica di una bomba rinvenuta nel paese di mia madre. Anche corrosa pesa ben 650 grammi.
Ormai era solo questione di tempo, ma ce ne voleva ancora tanto prima che la guerra finisse. In Toscana il fronte era passato e si aspettava chiusi nelle case le truppe alleate che, si era certi, non sarebbero state americane. All'inizio le facce scure e barbute, col turbante, spaventarono tutti: erano indiani. Ben presto si fece amicizia, nel generale entusiasmo per la fine di fatto della guerra. Il loro consumo di pepe, mangiato a piene mani, era un fenomeno su cui scherzare, oppure si ammirava l'abilità con cui disponevano la lunga fascia del turbante. Erano ormai diventati di famiglia. Arrivavano i primi rifornimenti alimentari, sacchi di farina con su scritto che erano donati dal popolo degli Stati Uniti d'America, la fame era finita. La strada stretta e tortuosa che portava al mulino cominciò ad essere molto trafficata. Cene, allegria, balli. Quando gli indiani andarono via furono abbracci e pianti da entrambe le parti.
Continua...
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