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Scrivici |Storia di un marinaio - IV
- Il dopoguerra -
Ora si voleva voltare pagina. Mio padre iniziò a darsi da fare. Saldò fra loro le latte di conserva usate, creando grandi torri di distillazione, con semplici ma efficaci accortezze. Tradizioni venete e conoscenze tecniche si univano: fabbricava la grappa. Bisognava inventarsi un'altra occupazione. Riparava orologi. Dipingeva cartoline e le andava a vendere. Cominciò a fare il rappresentante. Mio padre, che doveva mantenere la famiglia, pensò di utilizzare la padronanza della meccanica per aprire una ferramenta. Le banche concedevano finanziamenti all'intraprendenza, e solo il credito permetteva di tenere dietro al paese che rinasceva. Quello che ci voleva in Marina, un misto di abilità matematica, audacia, attenzione e competenza, serviva anche per questa attività, e mio padre cominciò così a costruire il benessere. Ora si erano trasferiti in città, vicino al negozio. Dalla sequenza delle case intuisco il crescere del reddito. La casa dove nacqui, medievale, si affacciava su un buio cortile. La successiva sarebbe stata più grande e moderna. L'ultima, bella e solare, da borghesi benestanti. Anche l'auto avrebbe rivelato il progresso, dalla seicento al millecento, in su.
La famiglia di mia madre invece era avviata verso un lento e costante declino economico, in quanto la generazione dei successori non era sul livello dei padri, mentre il mondo commerciale seguiva nuove leggi, con nuovi concorrenti. Non si poteva più vivere di rendita come prima. Avevano un palazzo nel centro di Viareggio, destinato alle vacanze estive di tutte le famiglie, a rotazione.
Ecco i miei sulla famosa passeggiata, lui in camicia bianca e occhiali scuri, lei signora elegante e sorridente. Oltre la siepe di negozi e palazzi si stendeva la spiaggia. La tradizione innanzitutto. Per decenni abbiamo avuto il posto al bagno Raffaello, sempre un angolo della prima fila di sdraio, sempre la prima cabina in cima al fabbricato di legno su palafitte. Tutto in blu e celeste, anche i patini. Ci sentivamo dei signori. Nelle foto si vede un bambino che gioca serio con una bottiglietta piena di sabbia. Più grande, cerco di remare. L'acqua era pulita, si pescavano le arselle col setaccio. La sera grandi cene insieme nel chiostro del palazzo. Sembrava un sogno per i miei, mentre per me era la normalità.
Mio padre credeva nella solidarietà: fece entrare nella società mio zio aviatore, reduce dall'Africa e privo di capitali. Il negozio progrediva, cambiò sede e a poco a poco si trasformò in una piccola azienda, che all'apice dell'attività dava lavoro a circa venti persone.
C’erano già le prime calcolatrici, ma mio padre tirava sempre fuori dal taschino il regolo calcolatore e in un attimo faceva i conti prima di chiunque altro. Quelle due sbarrette scorrevoli, con la finestrella trasparente e tanti numeri , mettevano in imbarazzo chiunque. Figlio del benessere potevo avere giocattoli che mio fratello non aveva avuto. A lui invidiavo invece l'infanzia avventurosa della campagna. Avevo così trenino elettrico e bicicletta, ma avrei tanto voluto lanciarmi per le discese del paese con un carretto. I miei divertimenti erano più casalinghi o solitari. Era infatti finita anche l'epopea delle vacanze viareggine con tanti parenti coetanei. La casa di Viareggio non c'era più. La famiglia di mia madre aveva chiuso il mulino e si stava dividendo il patrimonio. Per le vacanze i miei genitori presero in affitto una casa sull'Arno, con un giardino. C'era la terra e l'acqua, lo spazio per ogni genere di giochi e grandi orizzonti. Una terrazza era sospesa sul fiume, massa quieta eppure in movimento, viva, ricca di pesce. Vedevo mio padre tirare su la "bilancia" (la rete), spesso piena di muggini guizzanti. Oppure mi mandavano a pescare un poco di frittura a mezzogiorno, bastavano dieci minuti e non sapevo cosa fosse l'inquinamento. La riva lontana era di canneti, la tenuta di San Rossore, come dire l'Amazzonia. Avevo imparato a remare “all'arnaiola”, spinta silenziosa dal ritmo chilometrico, motore di libertà con cui risalivo il fiume, fruscio d'acqua e cigolio di legni. Il massimo era prendere qualcosa da mangiare, ancorarmi nella corrente, la carabina al fianco. La scoperta del caminetto, il cane, il grande finestrone sul fiume da cui osservare l'imbrunire, violetti e rossi riflessi sullo specchio d'acqua. La casa spartana, grazie ai lavori di mio padre e alla cura di mia madre si trasformò in rifugio accogliente. Inviti, amici, lo zio col motoscafo, risate e scherzi. Mio padre, contadino mancato, si dedicò all'orto e al vino.
Ci fu infine l'alluvione, il fiume cresciuto di cinque metri e trasformato in bestia rabbiosa, ruggente. La casa già invasa dall'acqua, isola nella corrente. Vedevo la mia barchetta irraggiungibile fare giravolte. Guardai supplichevole mio padre, ma non c'era niente da fare. Quando tornammo non c'era più. La bilancia era un groviglio di relitti, il muro di cinta aspirato via. Da allora l'Arno cominciò a puzzare di fogna, i pesci si vedevano con la pancia a galla. La trasformazione dell'ambiente, lo scempio del mio teatro di giochi, fu un pugno nello stomaco, che mi rese ecologista convinto ben prima che si coniasse questo termine. Abbandonammo l'Arno degradato e andammo in cerca di un altro paradiso terrestre. Invece di una tranquilla villetta da pensionati, i miei ripartirono con un'altra avventura. Acquistarono un vecchio mulino in rovina, dove era caduta una delle bombe che sapete, proprio sopra il paese di mia madre. Partecipai anch'io al grande cantiere. Mio padre aveva i suoi anni ormai, ma non riuscivo ancora a vincerlo a braccio di ferro. Dopo un decennio era una casa grande e piacevole, immersa tra gli olivi e le rocce, il torrente accanto. Mio padre bagnava le botti, io e mio fratello pigiavamo l'uva, gli amici bevevano il vino dell'anno prima: tutte così le vendemmie. Mia madre aspettava la socialità degli inviti e mio padre si rilassava zappando l'orto. Ma ben presto il lavoro mi portò lontano da questi svaghi agresti.
Quando andai la prima volta negli Stati Uniti per lavoro, mio padre mi aveva appena battuto sul tempo. C'era già stato per vedere lo stabilimento di un fornitore, a testimonianza che la curiosità di sempre non lo aveva abbandonato, nemmeno dopo tanti anni.
Mio padre era contento che andassi a lavorare altrove. Era interessato ai miei racconti, però non mi dava consigli. Sentiva già il divario, la lontananza di un mondo troppo diverso. Preferiva darmi un appoggio morale, l'incoraggiamento, l'entusiasmo stesso di ascoltarmi. Gioiva dei miei progressi, della stima che conquistavo e ridimensionava le difficoltà che raccontavo. Dimenticava le preoccupazioni, ascoltandomi. Tutto il contrario di mia madre che era stata curiosa finché poteva usare queste informazioni per guidarmi. Finito questo potere non era più tanto interessata ai miei percorsi in un mondo per lei incomprensibile. Mio padre evidentemente non voleva il potere, gli bastava solo riconoscersi nel figlio, ideale proseguimento di una vita che, per forza, non può essere infinita. Grande lavoratore, guidava ancora il negozio con tutte le sue difficoltà, ben oltre l'età consigliata. Non condividevo soltanto la sua massima preferita: prima il dovere e poi il piacere. Mi sentivo molto diverso, e non mi dispiaceva. Di recente mi hanno detto sul lavoro che sono ottimista e tenace. Mi sembra sia un modo garbato di dirmi che sono incosciente e testardo. Se invece avessi veramente quelle qualità, forse le ho ricavate da una vita soddisfacente o dal segno zodiacale. Ma scrivendo tutto questo mi sono accorto che anche mio padre era ottimista e tenace, bagaglio indispensabile per sopravvivere e vivere. Ripensandoci, devo dire che molti suoi insegnamenti non erano espliciti. Erano i suoi comportamenti, l'esempio, le scelte, le azioni che avevano qualcosa da dire. Esattamente come i suoi racconti non erano semplici aneddoti, ma esperienze eloquenti di come vada affrontata la vita, meglio di qualsiasi lezione teorica. Dal suo letto di ospedale, mi raccontò ancora alcuni episodi di mare che avete già letto. Pensai non ricordasse di avermeli già narrati. Mi accorsi invece che lo sapeva benissimo, e voleva aggiungere gli ultimi dettagli per essere sicuro che li ricordassi. Voleva proprio lasciarmi una eredità.
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