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Scrivici |2 - Combattimento e autoaffondamento del Caracciolo
- I drammatici particolari della fine -
Immagine (del Caracciolo?) pubblicata sul N.22 di "Aria alla rapida!.." del 1992, che creò dei dubbi fra i lettori, per la data errata sul retro (Taranto 1942).
Ringraziamo Carlo Sitzia per il cortese contributo alla storia, Celestino Biagini per la precisa testimonianza, e la Redazione di "Aria alla rapida!..." per il materiale fornito.
Continuazione del racconto
Nella precedente pagina sulla Missione del Caracciolo la testimonianza di Biagini ha descritto gli inconvenienti della messa a punto e la movimentata navigazione di trasporto, compreso il tragico incidente in cui Milos Baucer perse la vita.
Durante il trasbordo dall'Africa per Creta, con personale a bordo (e l'ordine di non attaccare), il sommergibile Caracciolo finì in mezzo a un convoglio britannico. Attaccare o proseguire? Una difficile scelta. Ma sentiamo la testimonianza.
Sott'acqua sotto le bombe, in acqua sotto il fuoco
Continuazione della Testimonianza di Celestino Biagini, di Villafranca in Lunigiana.
Durante la navigazione con mare forte, verso le 2, finimmo in mezzo a un convoglio diretto ad Alessandria. Il Comandante decise di attaccarlo in superficie e ordinò il lancio di quattro siluri da prora che però non raggiunsero il bersaglio.
Poi fece invertire la rotta e ordinò di lanciare i quattro di poppa, ma poiché il capo silurista non ricevette alcun dato riguardante la profondità o l'angolazione da imprimere ai siluri, non eseguì l'ordine.
Fu ordinata l'immersione rapida , ma il battello, a causa della troppa gente imbarcata, non aveva più assetto: andammo giù di prora e il battello non s'agguantava più; poi accadde l'inverso e la prora si rialzò fin quasi ad emergere, mentre in superficie le unità nemiche di scorta al convoglio ci tempestavano di bombe di profondità.
In camera di manovra tentavano ancora di riportare il battello in assetto, ma i gruppi d'aria erano esauriti. Inoltre lo scoppio delle cariche aveva danneggiato l'impianto della rete per gli ordini collettivi, i globi della luce e gli indicatori di livello dell'acqua dolce nelle casse di servizio. Le cariche esplodevano molto vicine e i loro scoppi facevano staccare la pittura dallo scafo. Una gabbia brasata a scafo, piena di elmetti, si staccò e il suo contenuto cadde sul motore ausiliario con un fracasso assordante.
Infine ci trovammo in superficie. Il Comandante cercò di disimpegnarsi ordinando il massimo dei giri, ma il signor Sellone, l'operaio della Fiat che avevamo a bordo, lo sconsigliò perché i motori termici erano ancora in garanzia. Il Comandante chiamò allora l'armamento ai pezzi, ma una volta in coperta nessuno degli addetti sparò
Note:
Guido Sellone è il tecnico che perderà la vita, a cui abbiamo già dedicato una pagina.
I cannoni erano due ma i serventi, senza protezioni, vennero probabilmente falciati dall'intenso fuoco nemico.
Le unità inglesi, intanto, ci sparavano invece da ogni parte e il Comandante ordinò a tutta la gente di salire in coperta.
Io ero ancora in camera ausiliari quando un mio amico venne a chiamarmi. I portelli erano chiusi e gli interfonici fuori uso. Mi diressi verso il portello di poppa, ma questo non si aprì mentre gli altri che erano con me cercavano di uscire schiacciandomi contro il portello. Non ci fu nulla da fare: forse il portello era stato deformato dalle esplosioni, quindi ci dirigemmo verso il portello della camera di manovra.
Rimasi per ultimo e in camera motori presi il salvagente. In camera di manovra , sotto la scaletta che portava in plancia, c'era un mucchio di oggetti: binocoli, stivali, tenute, berretti. Tutti si alleggerivano prima di buttarsi in mare.
Anch'io, indossando solo le mutandine da ginnastica, salii in plancia e vi trovai il Comandante che mi chiese chi ero e mi ordinò di scendere in camera di manovra e aprire gli sfoghi d'aria. Tornai giù, aprii lo sfogo della rapida e tornai in plancia, dove non trovai più nessuno. Alcuni giravano intorno alla torretta per evitare i colpi sparati dalle navi inglesi, che illuminavano i dintorni come a una festa paesana.
Mi buttai in mare. La luna illuminava tutto, sembrava giorno. Dopo aver nuotato per pochi metri, mi voltai e vidi il Caracciolo che, appruato, si inabissava. I compressori erano ancora in moto e vedevo l'acqua di raffreddamento che veniva pompata fuori bordo dal lato sinistro. La gente in coperta si trovò in mare senza accorgersene: il battello era sprofondato sotto i loro piedi.
Il mare era molto forte. I salvagente che avevamo non servivano granché perché ci impedivano di nuotare mentre gli inglesi ci sparavano addosso con le mitragliere, come dimostravano i traccianti che vedevamo rimbalzare sull'acqua. Molti furono colpiti e gli inglesi continuarono a spararci fino a quando non fummo sotto bordo alle loro navi.
Quando gli inglesi videro che il battello era sparito dalla superficie, un'unità lanciò un razzo giallo che galleggiò per qualche minuto. Alcuni dell'equipaggio si diressero da quella parte e non si videro più.
Quella che sembrava una corvetta si mise sopravvento e venne verso di noi: sullo scafo portava dipinta la sigla L70
(era il caccia Farndale della classe Hunt di 1.490 tonn., che sopravvisse alla guerra).
Mi imbattei in uomini con la testa reclinata sul petto, il corpo tenuto in posizione verticale dal salvagente.
A quanto ne so gli inglesi giustificarono il mitragliamento con il fatto che ritenevano che noi fossimo tedeschi.
Quasi tutti i naufraghi gridavano. Udii anche il comandante Musotto urlare: “Aiuto, sono il Comandante!”. Vidi anche qualcuno, credo un sergente elettricista, andare ad aiutarlo, ma tutti e due andarono giù. Il Comandante si era buttato in mare quasi completamente vestito e con gli stivali, lo vidi benissimo a qualche metro da me.
Non saprei dire quanto tempo passò prima che riuscissi a portarmi vicino all'unità britannica. Comunque, quando io e altri fummo sottobordo, ci lanciarono alcune sagole lungo la murata. Un compagno me ne passò una e quando ce l'avevo quasi fatta ad arrivare a bordo, il mio capo motorista si appese anche lui. La sagola si ruppe, io caddi giù e un colpo di mare mi allontanò a molti metri dalla nave.
Vidi che lungo la murata avevano finalmente calata una rete da sbarco e dopo molti sforzi riuscii ad aggrapparmi e a salire a bordo. Gli ultimi a farcela furono il Comandante in 2°, Vittorio Spadoni, e il nostromo Pezzati.
Profilo di un caccia britannico della classe Hunt (da una immagine su Storia della Marina - Fabbri Editori).
A bordo, prigionieri
Ci sistemammo tutti al caldo intorno al fumaiolo. In acqua non faceva freddo, ma fuori il vento era teso e fresco.
Gli inglesi divisero gli ufficiali dagli altri e a gruppi ci sistemarono in vari locali che, notai, erano davvero sporchi. Poi passò un ufficiale che domandò se parlavamo inglese. Lo parlavano il direttore di macchina Sitzia e il capo silurista Di Pietro. Ci fece scrivere su un brogliaccio le nostre generalità.
Quella sera, Radio Londra comunicò la notizia del nostro affondamento e diede l'elenco di coloro che si erano salvati. Vedemmo un corpo steso in coperta a faccia in giù e ci parve che fosse il contabile di macchina Aliberti. Del nostro equipaggio, se ne salvarono molti, forse una cinquantina. Molte delle persone imbarcate a Bardia si salvarono: un civile, un brigadiere dei carabinieri, il pilota tedesco ferito a un occhio e l'ordinanza del generale. Quest'ultimo, invece, non ce la fece: uscito in coperta e sdraiatosi per evitare i proiettili nemici, fu spazzato via da un colpo di mare.
Benché quasi tutti fossimo nudi, il comando dell'unità inglese non ci fornì alcun tipo di vestiario e nemmeno coperte, ma soltanto thè, gallette, e “corned beef”. Solo qualche membro dell'equipaggio, di sua iniziativa, ci diede qualche capo di vestiario, che fu restituito al momento dello sbarco ad Alessandria. A me diedero un paio di calze di lana e scarpette da tennis.
Attraccammo ad Alessandria il pomeriggio del 13 dicembre. Prima di sbarcare ci fornirono vestiario tedesco dell'Afrika Korps, ci filmarono con cineprese e, al momento dello sbarco, un picchetto di marinai dell'unità nemica in tenuta ordinaria ci presentò le armi. Infine una motobarca della polizia ci portò a terra. Prima di giungere al Campo di Prigionia n° 306 attraversammo tutta la città su alcuni camion scoperti. Gli ufficiali furono invece inviati al Cairo insieme a tre sottufficiali, a disposizione degli uomini dell'Intelligence Service.
Il nostro interrogatorio avvenne il giorno dopo da parte di un tenente di vascello che parlava l'italiano come noi. Fu una faccenda molto formale, poiché ciò che interessava loro, gli inglesi lo sapevano già.
Il periodo della prigionia costituisce un capitolo a sé, un'altra storia. Ma voglio qui ricordare che nel gennaio 1942 a Suez incontrammo alcuni naufraghi del Saint Bon, mentre nel marzo dello stesso anno anche quelli del Millo.
Documenti del Caracciolo (proprietà Salerno), dove si vede in alto a destra il nome "Sitzia" (direttore di macchina), di cui abbiamo ricevuto conferme.
Commenti sul mitragliamento e sulle vittime
Di questa testimonianza non c'è la possibilità di fare oggettive valutazioni, perché potrebbe anche essere influenzata da notizie raccolte in seguito. Probabilmente è frutto di uno sforzo ricostruttivo, che però è molto positivo perché fornisce una notevole precisione dei dettagli, espressa con una sobria narrazione senza commenti.
Il testo fu pubblicato su una rivista dei sommergibili, quando erano ancora moltissimi i reduci della guerra ancora in vita e capaci di ricordare. Si trattava di una rivista affollata di pronti commenti ad ogni imprecisione, vero punto di forza di “Aria alla rapida!...” Nessuno trovò niente da ridire.
La versione di Biagini ha molti punti in comune con quella da noi già pubblicata, di Salerno
Entrambi parlarono di mitragliamento, non certo i britannici.
Oggettivamente è difficile immaginare cosa significhi buttarsi nel mare agitato, a dicembre, solo con le mutandine, mentre ti sparano addosso con i traccianti.
Il mitragliamento dei naufraghi non fu un caso isolato, ma una precisa istruzione della caccia antisom.
Invece di affondare il sommergibile (se ancora mobile e attivo), si preferiva la conquista del battello in difficoltà o almeno la cattura dei documenti riservati, utili per raccogliere informazioni ed eliminare altre unità. Bisognava impedire che il battello affondasse, in modo da poter salire a bordo: a questo fine, si sparava per impedire l'uscita dell'equipaggio dal sommergibile, bloccando quindi l'esecuzione dell'autoaffondamento. Inoltre il fuoco leggero sterminava i serventi delle artiglierie e gli ufficiali in plancia, lasciando privo l'equipaggio di ordini e iniziative.
Ovviamente, una volta aperto il fuoco, i mitraglieri delle navi sparavano ovunque senza risparmio, carichi della tensione accumulata in una dura lotta (di cui erano fino a poco prima un bersaglio). Ciò poteva sconfinare facilmente in un crimine contro ogni regola umanitaria, sparando su uomini indifesi che di fatto si arrendevano, un confuso momento di passaggio che purtroppo capitò spesso. Probabilmente molti naufraghi del Caracciolo persero la vita per questo.
La giustificazione data con leggerezza da qualche marinaio della nave, che sparassero "perché li credevano tedeschi" (come se si potesse sparare sui naufraghi, se tedeschi!) è una risposta che lascia sconcertati e preferiamo credere che non sia stata espressa con convinzione. Risposte così potevano essere la conseguenza di una propaganda che dipingeva la guerra subacquea come immorale, rendendo possibili generalizzazioni infondate e conseguenti ritorsioni ingiuste sui sommergibilisti.
Forse qualcuno scomparve tra le onde, anche per il mare agitato. Chi era in acqua non vedeva oltre la cresta delle onde e alcuni dell'equipaggio si sarebbero persi andando in direzione opposta alla nave, dietro alla luce del razzo.
Sentiamo infine anche un commento dal figlio di Sitzia, dopo aver letto il racconto.
.. anche questa testimonianza conferma quanto ricordo del succinto resoconto di mio padre.
In particolare, in qualità di direttore di macchina, quindi ingegnere navale del Genio direttamente coinvolto nella messa a punto del mezzo, affermava che il battello presentava problematiche tecniche non del tutto risolte dal cantiere di Monfalcone. Raccontava in particolare che durante una esercitazione a largo di Pola si verificò una avaria abbastanza grave in immersione con rischi per la respirabilità dell'aria.
Una limitata difformità registrò poi nel numero di siluri lanciati e lanciabili, mio padre diceva che il sommergibile disponeva di armamento ridotto in quanto le camere di lancio, in particolare quelle di poppa, erano state usate per stivare la benzina (cosa che ricorda anche il Biagini). Da ultimo nel confermarle che mio padre parlava correntemente inglese.
Purtroppo devo anche confermare il criminale mitragliamento dei superstiti ad opera degli inglesi...
Carlo Sitzia
Concludiamo evidenziando che, dalle testimonianze citate, risulterebbe che il Comandante Capitano di Corvetta Alfredo Musotto dimostrò spirito offensivo e successivamente la volontà di presidiare fino all'ultimo il battello in auto affondamento. Avrebbe perso la vita, una volta finito in acqua, colpito da mitraglia oppure annegato per il vestiario invernale, che forse non aveva avuto il tempo di togliersi.
Ebbe la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
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