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Scrivici |Il sommergibile Macallé nel diario di Adriano Tovo
- Naufragio e affondamento, l'insidia del cloruro di metile. Giugno 1940. -
Africa Orientale Italiana. Cartine di una Guida della Consociazione Turistica Italiana (1938).Ringraziamo Adriano Tovo per averci gentilmente fornito il diario, ricordi, immagini dello zio Adriano. E' stata mantenuta la fedeltà ai testi (in corsivo) pur adattandoli alle esigenze di presentazione.
Un Diario, a Massaua in Mar Rosso.
Adriano Tovo, sommergibilista silurista del Macallé, così scrive sul suo diario alla data del 9 giugno 1940 (il giorno prima dell’entrata in guerra dell’Italia). Siamo a Massaua in Mar Rosso, Eritrea, Africa Orientale Italiana:
“Ho ultimato la regolazione dei siluri, la mia gente è stanca, sdraiati sotto la tenda di bordo, con la stoffa zozza ci togliamo il grasso dei siluri che unge quasi tutto il corpo. Il sudore gronda abbondante dalla nostra pelle quasi nera, ormai stracotta dai raggi solari più simili a pungenti aghi. Una doccia? Soltanto un sogno! Non c'è acqua. Tuffarsi nel mare? Il lichene non ci darebbe pace. E' la vita di ogni giorno. E' la vita del sommergibilista in Africa, è la più nera delle vite che un uomo possa condurre su questa terra Sono stanco, stanco di tutto, sogno ad occhi aperti l'Asmara. Asmara! Asmara! Dove sei? Mandami un po' della tua aria fresca, mandami il sollievo accompagnato da una delle tue donne che tanto desidero…”
E’ una sintesi efficace di cosa significhi trovarsi a presidiare “i confini dell’Impero”. Una realtà disagiata che si animerà subito, entrando in azione.
Quasi tutti i resoconti di guerra in forma di diario difficilmente sono stati redatti giorno per giorno, e più realisticamente sono stati scritti dopo, in base alla memoria. Da qui la conseguenza che alcuni diari possano differire tra loro, soprattutto nella dinamica e sequenza, mentre i particolari più minuti (di cui il testo di Tovo è ricco) sono interessanti per conoscere la realtà operativa. Anche senza conoscere le esatte disposizioni dell’epoca, è certo che fosse sconsigliabile, per non dire proibito, tenere traccia scritta delle attività, essendovi sempre il rischio che cadessero in mani nemiche. Era già difficile distruggere i documenti di bordo e ci mancava solo che ve ne fossero copie in giro sul battello. In genere i racconti venivano ricostruiti a distanza di tempo, dopo la guerra, verificandoli anche con i rapporti ufficiali, se c’erano. Nel caso del Macallé i superstiti si ritrovarono praticamente nudi e per loro contava più l’acqua che un foglio di carta.
Delle drammatiche vicende esiste anche un resoconto, da parte dell’Ufficiale di Rotta Sandroni, che è stato inserito nel libro “Odissea di un sommergibilista”, con alcune differenze rispetto al diario di Tovo, che commentiamo in seguito.
Prima di proseguire, diamo solo alcuni cenni per capire il contesto. La colonia dell’Africa Orientale Italiana era sia una realtà da proteggere che una base in posizione strategica rispetto al traffico navale tra Mediterraneo e Oceano Indiano: si poteva attaccare il traffico nemico e proteggere il proprio fin nell’oceano. Ma la decisione di entrare in guerra con la Gran Bretagna nel 1940 rendeva intransitabile il Canale di Suez, isolando la colonia senza possibilità di aiuti dalla madrepatria. Il nemico non aveva problemi nel far affluire altre navi, mentre le forze presenti non potevano essere aumentate né ricostituite, in caso di perdite. Se si pensava di sfruttare la posizione in modo offensivo, conveniva pertanto agire al più presto, prima che il rapporto di forze divenisse svantaggioso.
Le forze navali italiane erano però limitate, con una nave coloniale, 7 caccia superati, Mas, e 8 sommergibili, che teoricamente costituivano l’arma più moderna e temibile.
Nonostante una richiesta del Vicerè, il Duca d’Aosta, lo Stato Maggiore non aveva voluto aumentare le forze, per non sottrarle al teatro principale mediterraneo; rimaneva tuttavia l’idea di impegnare il nemico ovunque fosse possibile. Ai sommergibili italiani presenti in Mar Rosso fu chiesta quindi una immediata azione offensiva, appena dopo l’entrata in guerra. Così il Macallé salpò per Port Sudan, Galvani per Oman, Ferraris per Gibuti, Galilei per Aden, e pochi giorni dopo Torricelli, Perla, Archimede, Guglielmotti (praticamente tutti).
Medaglia del sommergibile Macallé.
In missione di guerra.
“Alle dieci posto di manovra. Il comandante Alfredo Morrone arriva, lancia uno sguardo veloce a tutto l'equipaggio schierato a poppa e dice: Nostromo, pronti a mollare. Ognuno raggiunge il proprio posto, c'è un'aria di mistero, un'aria insolita. Molla a poppa, molla a prua, pari avanti adagio, tutta la barra a dritta. I primi giri dell'elica creano una scia di poppa, lascia la banchina...
Il sommergibile Macallé con i suoi motori elettrici silenziosamente esce dal porto di Massaua. Pare che scivoli in questo mare piatto, a vederlo sembra una grande massa di olio. Sono le dieci e venti, al largo un po' di ventilazione ci fa rivivere, ma è il venticello prodotto dalla velocità del sommergibile perché di vento vero e proprio non ce n'è. Alle ore quattordici pronti per l'immersione, ma dove andiamo? Nessuno sa dove. Alle quattordici e trenta immersione.. Sempre più buio. Sul da farsi, in immersione nulla si sa, nulla si vede, solo il comandante guida il battello e i suoi uomini.
Ore ventidue, aria all'emersione, c'è una brezza tesa, che delizia! Si respira a pieni polmoni, si fumano sigarette una dietro l'altra. Fumare, fumare. Sono otto ore che non si fuma, otto lunghe eterne ore! Si inizia la carica degli accumulatori. Un motore diesel per far girare un'elica e spingere il sommergibile, un altro per il dinamotore che darà la carica agli accumulatori che a loro volta faranno funzionare i motori elettrici per la propulsione in immersione. In immersione non si può sprecare aria per la combustione dei motori, per questo motivo si naviga con motori elettrici che non hanno bisogno di ossigeno.
Alle ventitré, franco dalla guardia mi sdraio in cuccetta. Un rapido pensiero a mio padre, ai miei fratelli e alla mia povera madre defunta. Uno storpiato segno di croce residuo di una fede ormai vacillante ma ancora presente. Mi prende il sonno mentre il Macallé naviga verso ignota destinazione.”
10 giugno 1940: entrata in guerra.
“ Alle ore cinque immersione, monto di guardia presso la mia camera lancia siluri, sono ormai le dieci e la quota è di sessanta metri sotto il pelo dell'acqua. Il Macallè è in linea di navigazione perfetta, il suo assetto lo fa sembrare immobile come posato su due cavalletti. Improvvisamente l'interfonico: Attenzione! Tutta la gente in camera di manovra. Il Secondo di bordo dà l'attenti, è il Signor Napp, Tenente di vascello e presenta l'equipaggio al Comandante. Attimi di silenzio, silenzio di tomba, tutto è fermo a bordo. Noto il tic tac dell'orologio, parla Morrone. La sua voce è ferma, il suo sguardo tiene a bada quarantaquattro uomini.
Ragazzi!... Da questo momento siamo in guerra! ( non si sente il respiro di nessuno ) Contro l'Inghilterra, scrupolosamente faremo il nostro dovere! Che il destino della Patria salga ai massimi allori. So perfettamente, e ne sono sicuro, che tutti mi seguirete fiduciosamente. Le nostre famiglie ci seguono con il loro pensiero e ci benedicono. Siate sempre sereni e soprattutto calmi. Per il Macallé, per l'Italia, per noi tutti, in bocca al lupo! Viva il Re! Evviva! Rispondiamo con slancio.
Ognuno ai propri posti! Tovo e Manfredini, approntate i siluri al lancio, distanza tremila metri, profondità tre metri, angolazione a zero, appena pronti avvisate.
Signorsì! Alle dodici pronto! Pronto! Camera di manovra? Tutti i siluri pronti al lancio.
Noto nel volto della gente uno sguardo mutato, sono più seri, le loro espressioni par che dicano: ho da fare qualcosa. Si naviga in rotta per Porto Sudan.”
Porto Sudan, 11 giugno 1940.
"Alle cinque immersione, siamo davanti all'uscita del porto, quota periscopica otto metri, il mare è piatto, la visibilità al periscopio è limpida, l'occhio del Macallé non vede anima viva. Gregorio un mio silurista milanese mi chiede: ma quando esce questo Incrociatore?
Calma Gregorio gli dico, ci vuole pazienza, nella guerra di Spagna per tre settimane a diciotto ore di immersione al giorno ho atteso davanti a Cartagena uno scafo da pizzicare. Arrivò finalmente, era il Ciurruca un caccia da duemila tonnellate, due " chiodi in pancia e addio Ciurruca, calma Gregorio, verrà perché lo sento.
Zigzaghiamo tutto il giorno. Nulla all'orizzonte! I sommergibilisti non perdono mai la calma, sanno attendere, altrimenti guai, diventerebbero pazzi in breve tempo. Io sono vecchio della vita d'agguato, la guerra di Spagna mi ha ben allenato.
Alle ore ventuno aria all'emersione. Ora non si può più andare in coperta tutti insieme, i portelli sono sempre chiusi, il battello è pronto ad una eventuale immersione rapida, soltanto quello della torretta è aperto per favorire l'aspirazione dei motori. La plancia è piccola. In navigazione di superficie in torretta c'è il comandante, quattro vedette e un timoniere, sono già troppi per lo spazio che offre. Così a turno, uno alla volta per cinque minuti si sale a prendere una boccata d'aria. Inspirazioni profonde a pieni polmoni, aria, aria pura, che delizia! E' il mio turno, fumo una sigaretta, tenendo la brace chiusa nel palmo della mano, la brace potrebbe tradirmi, nel buio si vede a distanza. Il Secondo Napp fa assemblea in camera di manovra, un breve discorsetto, poi dà l'attenti e fa cenno all'Ufficiale di rotta, signor Sandroni, di iniziare la preghiera del Marinaio.”
13 giugno: Cloruro di metile, un nemico silenzioso.
“Attenzione! Attenzione, l'interfonico chiama la mia sezione poppiera. Poppa, parla camera manovra. Tovo in camera di manovra. Mi dirigo al centro, il Comandante: Tovo siamo con i locali in pressione, compressore di poppa in moto. Perché dà a me questo ordine'? A prora c'è un capo silurista... non discuto e mi avvio a prora, cosa vedo? Le nove persone destinate in questo locale sdraiate a terra, chi con le mani legate ad una maniglia fissa, altri con gli occhi stralunati, altri dormienti. Cosa succede? Manfredini che ti piglia? Marchetti! Marchetti parlo con te, che cosa fai? Questo mi risponde con una risata e gesticola con le mani.
Santo cielo qui sono tutti impazziti! Non riesco a rendermi conto di cosa possa essere accaduto. Metto in moto il compressore, porto la pressione regolare affidandomi al barometro, richiudo la paratia stagna e ritorno in camera di manovra.
Incontro subito con lo sguardo il Comandante, non riesco a pronunciare parola che mi fa cenno di tacere, mi accosto, mi fissa un attimo negli occhi, china due o tre volte la testa e sotto voce mi dice: cloruro di metile!
(Nota: nel diario è scritto erroneamente “clorugo di metilla”, forse a causa dell’uso solo verbale del termine, poi meglio conosciuto e visto scritto in seguito).
I condizionatori d'aria servono a ridurre la temperatura ambiente e per ottenere tale risultato, nel complesso di questa macchina, ci sono anche le bombole di cloruro di metile, questo gas è indispensabile per ottenere il raffreddamento dell'aria ma una sua fuoruscita può essere mortale. Non c’è sistema per trovare la perdita di questo gas perché è invisibile, incolore, inodore, agisce sull'uomo lentamente provocando sonnolenza, poi pazzia e con l'abuso la morte! Nove uomini sono destinati a prora, nove pazzi adesso lottano e giocano con la morte!
La missione continua, il condizionatore è stato fermato, la bombola del gas si è ormai esaurita, il suo effetto non si è smentito. La temperatura sale, abbiamo al termometro quarantanove gradi. Una follia.”
Purtroppo non era la prima volta che si manifestavano i nefasti effetti del gas, ci sarebbe voluto il freon. Dopo vari incidenti e intossicazioni, dalla primavera 1939 la pericolosità era nota ma venne sottovalutata, pensando che non si raggiungessero concentrazioni eccessive ed esposizioni prolungate; oltretutto la guerra giunse prima del previsto, senza rimedi al pericolo. Ma, a differenza delle esercitazioni, in guerra le sollecitazioni agli impianti erano maggiori con possibili perdite nascoste; inoltre la permanenza in immersione e in atmosfera inquinata aumentò considerevolmente, con più gravi conseguenze sulla salute e sulla lucidità di tutto l’equipaggio. Peraltro lo spegnimento prudenziale dell'impianto avrebbe fatto salire la temperatura interna a livelli insopportabili.
Se per necessità bisognava prolungare l’immersione, gli effetti del gas diventavano letali, fino a follia irreversibile, talvolta mortale. Tutti, marinai e ufficiali, erano esposti all’avvelenamento: potevano compiere errori e prendere decisioni sbagliate. Vi furono alcuni casi di incaglio ed è difficile dire se furono causati solo da scarsa conoscenza degli infidi fondali o anche da errori di valutazione e di rotta, indotti dagli effetti del gas. A questo grave pericolo si sommavano condizioni ambientali sfavorevoli, alte temperature, fondali bassi e insidiosi, effetti dei monsoni, che rendevano problematico l’impiego delle unità subacquee in Mar Rosso nelle severe condizioni di guerra.
L’Archimede dovette interrompere la missione per gravi intossicazioni a tutto l’equipaggio, trenta colpiti dalla follia, di cui 4 morti prima del rientro e altri 2 in seguito. Il Galilei, sottoposto a caccia antisom dopo un siluramento, fu costretto a rimanere in immersione, con effetti di intossicazione, e una volta riemerso fu attaccato dalle unità nemiche, avendo la peggio (uccisione di tutti gli ufficiali) con successiva cattura del battello, compresi forse dei documenti. Resta il dubbio che questo abbia favorito l’intercettazione da parte britannica causando gli affondamenti del Torricelli il 23 e del Galvani il 24.
Il piccolo Perla ebbe molti casi di intossicazione con allucinazioni e manifestazioni di follia, venendo anche sottoposto a caccia antisom. Emerso successivamente si incagliò, sostenne uno scontro a fuoco con un caccia britannico, e un attacco aereo. L’equipaggio fu salvato e anche l’unità venne disincagliata e recuperata in seguito (riparato, all’abbandono della zona, riuscì con gli altri tre sommergibili sopravvissuti a compiere il periplo dell’Africa fino a Bordeaux).
In sintesi, nelle prime settimane di guerra venne perduta o messa fuori combattimento la maggior parte dei sommergibili del Mar Rosso.
Tornando al sommergibile Macallé, secondo il resoconto dell’Ufficiale di rotta Sandroni, vi erano stati prima sintomi più lievi, inizialmente attribuiti ad avvelenamento da cibi guasti, vanamente curati con il latte. Anche il Comandante alternava momenti di lucidità a malesseri. Altra differenza tra i due resoconti è l’agguato a Port Sudan che nel diario di Sandroni non sarebbe avvenuto, perché l’incaglio avvenne nell’avvicinamento. Sandroni attribuisce al cielo coperto l’impossibilità di aver fatto un preciso punto astronomico e quindi (dovendo cercare riscontri a terra) che sia stato confuso, nel buio e nell’uniformità della costa, un faro con un altro più a nord, ritenendo che le pericolose secche fossero finite. In sostanza non si trovavano dove pensavano di essere...
La rotta approssimata di avvicinamento a Port Sudan in cui venne incontrata la secca. Disegno del Diario di Tovo che raffigura la posizione del sommergibile incagliato.
Il disastro
Notte del 15 giugno, ore 2.30
Stiamo caricando gli accumulatori, siamo lontani da Port Sudan di circa quaranta miglia, l'atmosfera è un po' fosca, una brezza tesa increspa il mare producendo piccole onde spumeggianti, nel mar Rosso c'è molta fosforescenza dovuta alla presenza di abbondante plancton, a volte addirittura sembra che ci sia terra di prua, altre volte invece è schiuma bianca.
Un fortissimo colpo arresta il Macallé che sbanda sul lato sinistro, sbanda rapidamente, i “massimi” scattano, la luce si spegne, non ritorna orizzontale. Ma che succede? Mi sveglio di soprassalto, sono scaraventato per terra dalla mia cuccetta, accuso un forte colpo al fianco… sento che mi scorre qualcosa di caldo giù fino alla gamba, porto la mano alle labbra, sangue. Luce, luce di sicurezza, accendete la luce di sicurezza!…Dentro la poppa siamo in tredici…”
“Vado all'interfonico e chiamo col ‘generale’: camera manovra a plancia, camera manovra a plancia, sempre lo stesso appello infinite volte poi finalmente una risposta. Qui plancia parlo con camera di lancio addietro? Riconosco la voce del Comandante. Tovo! Tovo! Parla Tovo? Si Comandante sono io. Tieni la gente calma, non c'è alcun pericolo, abbiamo picchiato contro uno scoglio, ci sono feriti? Do uno sguardo ai miei compagni, mi fanno cenno di no, rispondo: no signore, nessun ferito. Perdo sangue sul lato sinistro, sino alla caviglia è tutto rosso.
Bene, risponde il comandante, mettetevi gli autorespiratori Davis e state pronti per la fuoriuscita se sarà necessario. In ogni locale, in base al numero delle persone ci sono le maschere, a parte la fatalità per cui un marinaio che doveva essere in camera di manovra, si trovava a poppa.
Do l'ordine di mettere le maschere e non mi accorgo di essere senza. Di Nunzio mi porge la sua, non l'accetto, penso che non servirà a nessuno. Grazie Di Nunzio, ammiro il tuo gesto. Afferro uno straccio, uno dei tanti che si trovano sulle navi per asciugarsi le mani dall'olio e dal grasso e mi asciugo il sangue riuscendo a stagnare la ferita che mi ero provocato contro un maledetto stipetto nel momento del rovesciamento. La sezione di prora è fuori acqua, il centro del portello della camera di manovra è al livello del mare. Noi di poppa siamo immersi per dodici metri dalla chiglia al pelo dell'acqua. Tutti escono dal sommergibile, il mio locale, la poppa, ha la paratia chiusa e non si può aprire. Data la posizione scomoda lavoriamo male, cerco in tutti i modi di aprire il portello e ci riesco con una serie di movimenti acrobatici. Sospendendomi ai volantini e alle trasmissioni riesco ad arrivare con gli altri sino alla camera di manovra, prendo la maschera disponibile, la garitta di salita è quasi orizzontale, cammino con le gambe e con le mani, prendo una chiave, batto alcuni colpi. Di fuori mi rispondono, capisco che quello è il portello centrale e che sta giocando col livello del mare, faccio arrivare tutta la gente in contro torretta e chiudo il contro portello inferiore mentre do un ordine: ragazzi calma!
Maschere in funzione. Picchio ripetutamente al portello superiore e vedo che il volantino di chiusura si muove finché si apre. Una provvidenziale colonna d'acqua del diametro di sessanta centimetri ci casca sulla testa allagando il nostro piccolo locale. I polmoni della gente con l'autorespiratore inspirano e respirano rumorosamente aria del polmone di gomma della maschera come fossero delle macchine, appena completato l'allagamento fuori! Mi tolgo il facciale ed il boccaglio. Aria! Aria pura nuovamente.”
“Il ventre del Macallé sinistrato fa da coperta, è buio, non si vede terra, riusciamo dopo tremendi sforzi a mettere in mare il battellino situato nell'intercapedine di prora. Il Comandante fa una nota di S.O.S. chiama il radiotelegrafista e gli da l'ordine di tentare una trasmissione. Il S. Capo R.T si chiama Sergio Ursino che dimostra una certa indecisione nell'eseguire l'ordine, certamente è pericoloso ridiscendere in quella tomba. Capisco la situazione e l'importanza di quella trasmissione per cui chiedo il permesso di accompagnare il Sotto capo R.T. Il Comandante Morrone battendomi una mano sulla spalla: lo sapevo Tovo che saresti stato il primo.
Rimettiamo al posto le maschere, in una mano un fanale stagno, due persone aprono il portello, noi ci infiliamo e poi il portello viene richiuso alle nostre spalle. Camminiamo strisciando nella garitta allagata fino al contro portello, lo apro e scarico tutta l'acqua in camera di manovra, una capacità di circa quattro metri cubi ( quattromila litri ).
Ci dirigiamo verso la sala radio ma la convertitrice è allagata quindi la trasmissione non può essere effettuata, torniamo indietro ripetendo al contrario le stesse operazioni fatte durante la fuoriuscita.
Il Comandante dopo dieci minuti mi dice che devo tornare nel quadrato ufficiali e portare su le cassette con i segreti di guerra, bisogna immediatamente affondarli prima che all'alba il nemico ci scorga e facendoci prigionieri s'impossessi dei “ riservatissimi ".
Affondiamo le cassette dei segreti. In questo secondo viaggio prendo dal mio stipetto la fotografia di mia madre, sfondo con un calcio la vetrinetta della vinicola e prelevo una bottiglia di cognac, ne riempio un mezzo bicchiere e lo svuoto d'un fiato, poi lo scaglio contro uno specchio e tutto va in frantumi, sfidando quel detto che vuole che lo specchio rotto porta disgrazia, impreco contro il destino che peggio di così al Macallé non poteva capitare. Riesco all'aria aperta.
Il comandante da l'ordine di ridiscendere in tre persone attraverso quell'infernale portello per andare a prora a salvare quei pazzi del cloruro di metile. Ritorno volontariamente, mi adopero con il massimo delle mie forze disponibili, si completa il salvataggio.
Il mio Sotto Capo silurista è il più grave fra tutti, si studia intanto a quale distanza da noi ci può essere terra, partiamo a nuoto in quattro direzioni diverse, le quattro più probabili per una ricognizione ma l'alba non si fa ancora viva ma dopo venti minuti ecco un grido: terra! Si tocca coi piedi, terra! La staffetta al traverso di dritta ci regala un grido di salvezza.
Alle ore cinque del sedici giugno 1940, nel mar Rosso è già giorno, lo scoglio alto sul mare un metro, lungo circa duecento metri e largo cinquanta con un po' di sabbia al centro è posto sulla nostra dritta poco distante. Tutto l'equipaggio mette i piedi sulla terra ferma, io, il Comandante in seconda, e due motoristi restiamo a bordo.
Facciamo mille prove per tentare di salvare il Macallé, cercando di disincagliarlo. Si cerca di allagare la poppa in modo da appesantire il sommergibile per farlo scivolare via dallo scoglio. Allaga, allaga, ecco si muove, il Comandante in seconda ordina di chiudere il portello, l'acqua entra con troppa violenza, non si chiude più, si allaga tutto, noi subito fuori per non affondare insieme al Macallé che affonda. Affonda verticalmente per non risalire più a galla. Mai più! Tutti piangono esclusi i pazzi.
Siamo tutti su questo maledetto scoglio, quarantacinque uomini senza cibo e senz'acqua, nudi e col sole africano a temperatura di sessanta gradi ed anche settanta nelle ore più calde.”
Il sommergibile Macallé era scomparso in centinaia di metri di profondità. Mentre nel resoconto di Tovo ciò sarebbe avvenuto accidentalmente nei tentativi di disincaglio, in quello di Sandroni, sarebbe dovuto alla decisione di autoaffondamento. Comunque il battello era in bilico sull'abisso. Bisogna tenere conto che le condizioni ambientali e i postumi dell’avvelenamento da gas potevano rendere difficile mantenere lucidità e memoria esatta dei fatti.
“Passa il primo giorno, la sete e la fame mi tolgono tutte le forze, non riesco a muovermi. Bisogna fare qualcosa, il Comandante decide di far partire il battellino con tre persone in direzione di Massaua fino a Morsa Tarlai in Etiopia al confine, si tratta di percorrere 120 miglia, è una distanza enorme per una barchetta a remi ma la voglia di vivere ti fa fare questo ed altro, l'ora della partenza è decisa per le diciotto. Il Guardiamarina Elio Sandroni, il sergente nocchiere Torchia ed il marinaio Castigliola fanno equipaggio per una delle più avventurose imprese che mai nella mia vita abbia sentito raccontare. Ecco che dopo il grido viva il Re, viva l'Italia quel guscio di noce s'allontana sempre più da noi dando al cuore la prima stretta per la separazione dai fratelli del mare.”
In effetti il lungo viaggio alla ricerca di aiuti fu un’avventura che meriterebbe di essere raccontata: si può leggere nei ricordi di Sandroni, una storia nella storia.
Sull’isola gli intossicati dal cloruro di metile manifestarono ancora sintomi di follia, gesti pericolosi. Tovo fu costretto a stordire un amico con un pugno per renderlo inoffensivo. Azione che lo turbò. Si occupò di Carlo, in gravi condizioni. Ma non ci fu niente da fare: non sopravvisse alla permanenza sull’isola. Alla fine fu l’unica vittima della vicenda.
Adriano Tovo.
Il resto della storia.
Prosegue il racconto il nipote, Adriano Tovo:
E' soltanto un mio pensiero folle, i gabbiani sono da sempre i migliori amici dei marinai, infatti volavano basse picchiate per porgere un ultimo saluto d'onore all'amico Carlo, all'eroe ormai sepolto sotto pochi centimetri di sabbia, la poca sabbia che l'isolotto poteva offrire. Dopo tanto tempo lui è ancora lì a riposare, scrupolosamente protetto dai voli radenti degli amici gabbiani dell'isolotto di Barr Musa Kebir.
Luglio 1957, zio Adriano viene in Sardegna per portare un fiore sulla tomba di suo fratello Umberto e per conoscere i suoi due nipoti.
Zio, mi vuoi raccontare come sono andate le cose nel mar Rosso col tuo sommergibile?
Siamo stati dieci giorni al sole su quell'isolotto di madrepora senza acqua né cibo, siamo riusciti a sopravvivere tutti meno uno, ridotti a pelle e ossa fino a quando siamo stati salvati grazie a quei tre eroi che con la barchetta a remi, dopo una serie di vicissitudini faticose e rischiose sono riusciti a raggiungere una base militare italiana in Africa e poter finalmente trasmettere un fonogramma informando dell'accaduto.
Ma sull'isola cosa facevate?
Ah, niente, stavamo praticamente immersi nell'acqua tutto il giorno con le mutande bagnate sulla testa. Durante la notte, alla luce della luna, una miriade di granchi col carapace sottile e morbido con la consistenza della pellicola che sta dentro un uovo sodo, salivano dal mare sull'isolotto. Noi riuscivamo a schiacciarli con uno schiaffetto pensando di poterli mangiare ma erano pieni di acqua di mare e nient'altro, li chiamavamo i granchi della luna.
E per bere?
Acqua di mare!
Un giorno un piccolo gabbiano, forse stanco o forse ferito ha avuto l'ardire di star fermo e lasciarsi catturare. Quarantadue uomini che circondano un gabbiano, immaginarsi la scena, lo abbiamo mangiato vivo dividendolo in quarantadue parti uguali. Abbiamo privato della vita un gabbiano, il migliore amico dei marinai. Qualche giorno dopo uno dei nostri compagni di sventura, nonostante il prolungato digiuno, riuscì ad andare di corpo. Tu hai mangiato qualcosa di nascosto senza dividere con gli altri, fu in breve il verdetto, ma il poveraccio forse non aveva colpa, comunque non si seppe mai.
Successivamente fummo avvistati da un aereo nemico che ci paracadutò le istruzioni per essere fatti prigionieri da un idrovolante, che sarebbe sopraggiunto il giorno dopo.
Quando è arrivato l'idrovolante inglese, ci siamo messi gli autorespiratori Davis e ci siamo nascosti in immersione. Gli apparati Davis erano strumenti piuttosto rudimentali ma efficienti, una fiala di vetro contenente ossigeno puro che veniva spezzata dall'esterno e un po' di calce sodata per filtrare l'anidride carbonica allo scopo di trattenerla dentro il polmone di gomma per non emettere bolle che sarebbero state viste dal nemico.
Successivamente arrivò il sommergibile Italiano Guglielmotti che ci raccolse e ci portò in salvo presso un presidio italiano sulla costa africana. In seguito, ad alcuni di noi capitò di essere in procinto di essere fatti prigionieri dal nemico e per evitare tale evenienza fuggimmo col Mas verso la penisola araba; dopo aver attraversato tutto il mar Rosso ci mettemmo nelle mani dell'autorità Yemenita, paese amico dell'Italia che ci accolse come previsto da un accordo internazionale. Internati ma non prigionieri.
Il rientro in Italia avvenne facendo via mare il periplo dell'Africa essendo chiuso il canale di Suez. Ci vollero una trentina di giorni di navigazione ed il tempo passava giocando a carte insieme a quella signora che divenne poi sua moglie, una slava di Gorizia che scelse di essere italiana, una persona dolcissima che fu, per il nipote, la zia Lella. Rientrati in territorio italiano, Adriano Tovo ed altri hanno poi fatto parte della Decima Mas. Dopo la guerra, divenuto dirigente tecnico presso un’azienda in Lombardia, morì di polmonite all'età di cinquantadue anni per aver guidato l'auto con la testa fuori dal finestrino a causa della nebbia.
Il nipote Adriano Tovo ci ha fatto presente i molti personaggi della sua famiglia che hanno militato in Marina. Oltre allo zio Adriano, il padre Umberto Tovo, nocchiere, fu naufrago sull'Incrociatore Da Barbiano. Lo zio Armando Santandrea visse l'armistizio nella base della Maddalena occupata dai tedeschi. Lo zio Claudio Santandrea perse la vita nell'affondamento della sua nave in porto. Un nonno Pietro Santandrea era maresciallo di Marina, cannoniere. Una vera dinastia di uomini di mare, che hanno servito la Nazione.
Nota: per maggiori informazioni sul sommergibile Macallé si può consultarne la scheda nel nostro database.
Sulla vicenda narrata suggeriamo la lettura di "Odissea di un sommergibilista" di Patrizio Rapalino e Giuseppe Schivardi - Mursia 2008.
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