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Scrivici |Il soccorso dei sommergibili affondati
- Incidenti e possibilità di salvarsi su un sommergibile della II° guerra mondiale -
La vicenda del sommergibile americano Squalus nel 1939
La storia dell’incidente occorso al sommergibile Squalus il 23 maggio 1939, a Portsmouth (New Hampshire – Usa), ci permette di esaminare alcune caratteristiche dei battelli americani e dei loro sistemi di sicurezza, alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Si trattava di una uscita per l’immersione di prova e la consegna alla U.S. Navy. Alle 8.40 i sommergibilisti in camera di manovra stavano controllando il pannello chiamato “Albero di Natale” per assicurarsi che ogni luce rossa passasse al verde, al momento dell’immersione rapida. Sceso a 15 metri, dal locale motori giunse la segnalazione che erano rimaste aperte le immissioni (le prese d’aria dei motori termici, da 80 cm di diametro, e della ventilazione locali, da 45 cm), nonostante le spie verdi. Fu data aria alla zavorra principale e ai serbatoi di sicurezza, ma con l’eccezionale allagamento il sommergibile non riuscì a risalire e cadde sul fondale a 75 metri di profondità, inclinato longitudinalmente a quaranta gradi, con la poppa nel fango. La tempestiva chiusura delle porte stagne aveva limitato l’allagamento ai locali di poppa. Erano sopravvissuti 33 uomini mentre 26 erano probabilmente già annegati a poppa. Tra le dotazioni di sicurezza c’era un respiratore Monsen per ogni membro dell’equipaggio, bombe fumogene per segnalare la propria posizione in superficie, una boa telefonica che poteva essere rilasciata per le comunicazioni in superficie, alloggiamenti per ospitare una campana pneumatica di salvataggio calata dall’esterno, scorte di ossigeno e calce sodata purificatrice per 72 ore. Mentre veniva mandata in superficie la boa telefonica e i primi segnali fumogeni, il comando dell’Arsenale di Portsmouth (non ricevendo comunicazioni) aveva messo in allarme la nave di soccorso (dotata di campana) e il rimorchiatore. Anche il sommergibile Sculpin in zona venne avvertito e poté avvistare le segnalazioni fumogene. Erano circa le 13.00 quando l’equipaggio dello Squalus entrò in contatto telefonico con lo Sculpin. Non si ebbe il tempo di chiedere un palombaro per la chiusura delle immissioni, perché il mare formato allontanò lo Sculpin, spezzando il cavo telefonico. Alle 19.30 si riuscì ad agganciare il sommergibile, mentre varie unità erano ormai sul posto. Sullo Squalus si sentiva il freddo per la profondità e si cercava di limitare i movimenti e il consumo d’aria. Alle 10 del mattino successivo si completò l’ormeggio della nave soccorso, con un cavo diretto sul sommergibile, lungo il quale fu possibile calare la campana di soccorso (2,5 metri di diametro, 9 tonnellate, dotata di casse per regolare la spinta di galleggiamento). Giunta sull’imboccatura del sommergibile, le casse venivano allagate per aumentare la tenuta con il peso, provvedendo a espellere l’acqua con aria compressa. Tra le 13 e le 18 furono compiuti tre viaggi con sette o nove uomini per volta. L’ultimo viaggio avvenne alle 20 circa, con alcune difficoltà che vennero superate. Così il salvataggio si concludeva con successo. Il sommergibile Squalus fu poi recuperato circa quattro mesi dopo. Venne ribattezzato Sailfish e partecipò alla seconda guerra mondiale. Destinato a bersaglio per le prove atomiche di Bikini, fu invece risparmiato (a causa della storia che abbiamo raccontato, all’epoca molto seguita dall’opinione pubblica) e fu destinato a monumento. (Informazioni da un articolo di J.Harrington su Selezione del Reader’s Digest – Dicembre 1956).
Un'altra tragedia sottomarina avvenne pochi giorni dopo, il 1 giugno 1939, al largo di Portsmouth nel sud della Gran Bretagna con l’affondamento in bassi fondali del sommergibile Thetis nel corso della prima prova d’immersione, con circa cento persone a bordo, di cui pochissimi si salvarono.
Ancora quattro mesi dopo i giornali scrivevano che erano stati recuperati 65 corpi dell’equipaggio e si lavorava per completare la raccolta delle salme. il Thetis, recuperato e ribattezzato Thunderbolt partecipò al conflitto mondiale, durante il quale silurò e affondò il sommergibile italiano Tarantini che rientrava a Bordeaux. Il Thunderbolt venne infine affondato senza superstiti dalla corvetta Cicogna a ponente della Sicilia, dopo lunga caccia con bombe di profondità, il 14 marzo 1943. (Informazioni da fonti varie e da "Cento sommergibili non sono tornati" – Teucle Meneghini – CEN Roma 1980)
Le difficoltà di salvataggio
L’esito positivo del salvataggio dei sommergibilisti dello Squalus costituisce un evento rilevante per l’epoca, anche per la profondità non trascurabile a cui avvenne. Operazioni come queste, con unità adatte e ancorate sul posto, che devono lavorare in modo efficiente, presuppongono che non vi sia un conflitto in corso con rischi di attacchi. E’ comunque sempre determinante il fattore tempo, per la limitata autonomia dei superstiti. Si può effettuare il salvataggio del solo equipaggio, esponendolo però a rischi diretti, e quindi sono necessarie attrezzature adeguate. Oppure si può tentare il recupero del battello che tuttavia richiede operazioni impegnative, e anche lunghe come tempi, se il sommergibile non può tornare in superficie con i propri mezzi. Rientra in questo caso lo sfortunato sommergibile italiano F.14, dove le piccole dimensioni e l’assenza di contromisure all’epoca, portò in 12 ore al decesso dei superstiti. L’equipaggio prigioniero del relitto ha un tempo di sopravvivenza limitato sia per l’esaurirsi delle scorte d’aria, sia per l’avvelenamento dell’atmosfera che può lentamente saturarsi di gas, come quello derivante dal trabocco degli acidi degli accumulatori, in contatto con l’acqua di sentina. Ma anche l’uscita di un uomo dal sommergibile comporta pericoli mortali, simili a quelli dell’attività subacquea di un sommozzatore. La risalita, anche da bassa profondità, comporta il trattenere istintivamente il respiro con la pressione esistente: risalendo, tale volume d’aria si dilata due o tre volte, provocando danni fisici polmonari o il decesso, se non si è preparati a farlo (espirando in continuazione). Due superstiti del sommergibile Iride persero la vita per questo motivo, risalendo da soli 14 metri, mentre altri si salvarono. Un altro pericolo è costituito dalla permanenza a lungo in profondità, in un sommergibile allagato, dove la pressione non è più simile a quella atmosferica, ma vicina a quella circostante. In questo caso vi è il lento assorbimento dell’azoto contenuto dall’aria nel sangue, che in caso di rapida risalita non ha il tempo di essere restituito attraverso la respirazione, ma si dilata dove si trova, provocando l’embolia, con conseguenze letali. La presenza a bordo di strumenti di salvataggio è certamente di conforto a chi si espone ai rischi della navigazione sottomarina, così come la speranza di soccorso aiuta a sopportare meglio una drammatica attesa. E’ forse per questi motivi che si cercò di dotare i battelli di alcuni mezzi di sicurezza, anche se nella pratica bellica non furono usati, perché difficilmente vi erano le condizioni ideali in cui avrebbero dovuto funzionare.
Impianti di salvataggio dei sommergibili italiani
I battelli italiani erano normalmente ben attrezzati, abitabili e dotati di servizi, rispetto alle corrispondenti unità tedesche, spartane ed essenziali per tutto ciò che non aveva finalità belliche. Era quindi logico che sui sommergibili italiani anche le attrezzature di sicurezza, di impiego assai raro, venissero comunque predisposte in fase costruttiva, per consentire qualche opportunità di salvezza in casi estremi. I sommergibili come quelli della classe “Calvi” erano dotati di 2 garitte di salvataggio, una a prora e una a poppa, collocate all’altezza delle paratie delle camere di lancio siluri. La garitta conteneva un ascensore del tipo Gerolami-Arata, che permetteva ad un uomo per volta di risalire alla superficie, senza stare a contatto con l’acqua. Vi erano anche una camera Belloni, nelle due camere di lancio, che permetteva l’uscita dal sommergibile posato dal fondo, risalendo in apnea o con respiratore Davis. Dato che i sistemi individuali erano lenti e aleatori, in funzione delle capacità psicofisiche delle persone, era più efficace il recupero del battello assieme all’equipaggio. Un eventuale palombaro della nave di soccorso avrebbe trovato in coperta delle prese con un tappo da svitare, per attaccarvi una manichetta dell’aria compressa da mandare nelle casse zavorra, per alleggerire il battello e farlo risalire in superficie. C’era anche l’attacco esterno per mandare aria nei locali e aspirare quella viziata. Le dotazioni di sicurezza includevano la purificazione dell’aria, effettuata con bombole di ossigeno ad alta pressione e con filtri per eliminare l’anidride carbonica, utilizzabili anche in caso di permanenza prolungata in immersione. Per la comunicazione con l’esterno, si potevano rilasciare dall’interno delle boe telefoniche che una volta in superficie permettevano ai soccorritori di parlare con il sommergibile. Le boe erano dotate anche di luce, azionata con tasto Morse. Queste dotazioni potevano variare da una classe di unità all’altra, in funzione delle dimensioni e autonomia delle unità e della loro modernità, ma sostanzialmente le attrezzature di sicurezza erano sempre presenti sui sommergibili italiani.
Il tentativo di salvataggio del sommergibile Medusa nel 1942
Il 30 gennaio 1942, al rientro a Pola da un esercitazione di addestramento, il sommergibile Medusa venne silurato e affondato dal sommergibile Thorn. A parte pochi membri dell’equipaggio che si trovavano all’aperto, il sommergibile affondò con tutto l’equipaggio, di cui 14 sopravvissero all’interno del relitto, a poppa. Diverse unità, sommergibili e rimorchiatori iniziarono le operazioni di soccorso, comunicando telefonicamente con i superstiti. Palombari scesero sul fondo. Il sommergibile Otaria rifornì con una manichetta d’aria il relitto, mentre si cercava di attuare il sollevamento con un pontone. Nella stessa zona era avvenuta la tragedia del F.14, eppure le speranze erano buone per i progressi nei mezzi e nell’addestramento al salvataggio. Ma a causa dell’ingrossarsi del mare, comunicazioni e alimentazione dell’aria rimasero interrotte mentre tutte le unità furono costrette ad allontanarsi. Alcuni giorni dopo, quando il mare si placò era cessato ogni segno di vita sul relitto.
A prima vista si potrebbe pensare che il riuscito soccorso ai superstiti del sommergibile americano Squalus sia dipeso da una maggiore qualità dei sistemi di salvataggio, ma i sommergibili italiani avevano attrezzature sostanzialmente paragonabili. Sicuramente una campana di salvataggio era più efficace e veloce per il numero di persone trasportate ad ogni viaggio, ma bisognava avere a disposizione una nave soccorso ben equipaggiata. Pertanto avevano un senso anche i metodi dei sommergibili italiani, con ascensori singoli, essenziali. Al massimo serviva l’aiuto di un comune palombaro, alla portata di ogni unità, per operare all’esterno. Il vero problema erano le condizioni in cui effettuare i soccorsi, in zone di guerra, dove i soccorritori dovevano ancorarsi e rimanevano alla mercé di attacchi aerei, intervenendo su battelli spezzati e distrutti, difficili da rintracciare e in fondali proibitivi. Ecco perché gli interventi di soccorso furono rari durante la guerra.
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