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Scrivici |La vera storia dell’affondamento dello Scillin
- Ultra e i prigionieri britannici sul piroscafo Scillin -
Disegno e immagini Trentoincina. Il disegno dello Scillin è ricavato da una immagine anteriore all'epoca dei fatti.
Ringraziamo Brian Sims per la gentile collaborazione e per il materiale fornito.
We thank sincerely Mr. Brian Sims for the story and the kindly provided documents.
Abbiamo aperto con curiosità una busta che aspettavamo dall’Inghilterra contenente vari documenti tra cui i messaggi italiani decifrati da Ultra a Bletchley Park e una pagina del diario di bordo del sommergibile Sahib. Tutto era cominciato cercando di chiarire se il mercantile italiano Scillin fu silurato e affondò il giorno 13 novembre 1942 (database Trentoincina da dati dell’Ufficio Storico della Marina) oppure il 14, come asseriva qualcuno molto informato: il figlio di un prigioniero inglese deceduto nell’affondamento. Le scarne informazioni che avevamo si sono arricchite di molti dettagli, sul dramma delle vittime e sui retroscena dello spionaggio.
I fatti
Dopo che Tobruk era stata presa dalle forze italo-tedesche nel giugno 1942, decine di migliaia di prigionieri alleati dovevano essere portati in appositi campi di prigionia. Secondo il resoconto che abbiamo ricevuto, i campi predisposti dagli italiani nei pressi di Bengasi, erano privi di strutture adeguate e si rivelarono insufficienti per il gran numero di militari che dovevano accogliere, costringendo i prigionieri a vivere in condizioni igieniche critiche, tanto che molti erano affetti da dissenteria e indeboliti fisicamente al momento di trasferirli verso i porti di imbarco per l’Italia, in novembre. Un gruppo di circa mille prigionieri, anche di altra provenienza, avrebbe dovuto imbarcarsi al Molo Spagnolo del porto di Tripoli sul piroscafo Scillin di 1590 tonnellate, varato nel 1902 in Gran Bretagna, acquistato nel 1937 da una società italiana e successivamente requisito dalla Regia Marina. A bordo poterono salire non più di 814 prigionieri, saturandone la stiva. I locali affollati e i servizi igienici erano del tutto inadeguati, tenendo anche conto che i prigionieri erano malati o affetti da dissenteria. Non furono distribuiti salvagente o altro equivalente. La nave salpò per Trapani il 13 novembre 1942 alle 13.00 dopo un ritardo di tre ore. Il giorno dopo lo Scillin fu sorvolato da un ricognitore britannico. La sera, il sommergibile Sahib, al comando del Luogotenente John Henry Bromage, operante presso le secche di Kerkennah, alle ore 19.29 del giorno 14, attaccò lo Scillin in superficie, fermandolo con il cannone (almeno 10 colpi a segno) e poi silurandolo alle 19.50 a 750 yards di distanza. La nave affondò in un minuto circa. Secondo testimonianze, difficilmente ci fu scampo per chi era nella stiva. Il sommergibile si avvicinò ai superstiti, presenti in gran numero che dichiararono di essere prigionieri di guerra britannici. “Any Englishmen in the water?” chiese stupito il comandante. “Nae, there’s a Scotsman!” fu la risposta. Il Sahib raccolse 25 britannici e 37 italiani, poi dovette allontanarsi al sopraggiungere di una unità nemica, abbandonando in mare, nella notte, gli altri naufraghi (centinaia). Il sommergibile portò i sopravvissuti il giorno dopo a Malta, dove fu profondamente ripulito e disinfettato a causa dello stato fisico dei trasportati. I dettagli vengono dal documento ADM199/1839 – SECRET – del H.M.S. P212 Patrol Report (diario di bordo del Sahib), da intervista dopo la guerra al Comandante del Sahib, e da racconti di altri protagonisti.
I retroscena dello spionaggio
I comandi britannici sapevano che c’erano prigionieri britannici su quella nave? E pur sapendolo, lasciarono che venisse silurata da un loro sommergibile? Rotta, orari, velocità e carico delle navi, scritti nei messaggi cifrati italiani tra Tripoli e i comandi, venivano regolarmente decifrati da Ultra a Bletchley Park, inoltrandoli ai comandi britannici. Era noto che lo Scillin aveva una velocità di 8 nodi, era partito con tre ore di ritardo e che sarebbe passato dove il sommergibile Sahib lo attendeva: “…three hours delay, route unchanged. 17:30z/13/11/42”. Messaggio QT6056/AL4023/MA4020 (QT erano i messaggi da UK a Malta). Era anche noto che aveva a bordo molti prigionieri: “810 prisoners and about 30 military guards have been embarked… 2205/13/11/42”. Messaggio ZIP/ZPTI/212121 (ZPTI erano i messaggi dalla decifrazione ai comandi britannici). A quanto sostenne, il comandante del Sahib non aveva alcuna idea che vi fossero prigionieri britannici su quella nave. Pensava di affondare un trasporto truppe italiane. Parrebbe dunque che i comandi britannici abbiano consentito l’affondamento, pur essendo informati del carico, per non rivelare al nemico con questa astensione la conoscenza dei messaggi italiani. L’affondamento dello Scillin non fu un caso isolato. Anche il Tembien fu affondato il 27/2/1942 dal sommergibile Upholder con soli 78 sopravvissuti su 468 prigionieri. Su altre navi come Sestriere o il Nino Bixio i messaggi rivelano la conoscenza che vi fossero prigionieri, senza sapere quanti: 300 persero la vita sul Bixio. Chi ci ha fornito copie dei documenti ha tenuto a sottolineare che nessuno dei comandanti di sommergibili sapeva che vi fossero prigionieri su quelle navi. La dinamica del finto avvistamento aereo, per giustificare il successivo affondamento, rientrava nel comportamento obbligato, al fine di nascondere la vera fonte dell’informazione. Ancora una volta abbiamo la conferma indiretta dell’uso della decifrazione Ultra e di quanto fosse considerata vitale per il fine supremo di vincere la guerra. Si riteneva così importante non far capire che i messaggi erano decifrati costantemente, da compiere scelte pesanti dal punto di vista del conflitto morale. Chi ci ha fornito i dati sapeva soltanto che il padre era disperso, nei campi di prigionia o in mare. Attraverso la costanza della ricerca e l’aiuto di altri, è riuscito a saperne di più. Ma non è detto che sapere ogni dettaglio della verità, sia fonte di serenità. In ogni caso, sappiamo che ha potuto gettare fiori sulle onde, in un punto preciso del mare.
Prigionieri perduti, vittime di fuoco amico
Durante la seconda guerra mondiale moltissimi prigionieri di guerra di varie nazionalità persero la vita su navi nemiche che li trasportavano verso i campi di prigionia, affondate da attacchi “amici” di sommergibili o aerei. I prigionieri non potevano rimanere nei teatri di guerra dove erano stati catturati e dovevano essere trasferiti in luoghi adatti dove custodirli e mantenerli, secondo le convenzioni. Tra le varie sponde del Mediterraneo e degli oceani venivano trasportate folle di militari sconfitti. Si utilizzavano spesso navi mercantili nelle cui stive, certo non confortevoli, si potevano rinchiudere i prigionieri, centinaia o migliaia, facilitando il lavoro dei soldati di guardia.
Quella che era già una sofferta odissea poteva trasformarsi in qualcosa di peggio. Le navi non rivelavano il loro contenuto e venivano attaccate senza sapere. Il siluramento, con l’esplosione dei siluri nelle stive affollate, poteva produrre molte vittime, proprio tra i prigionieri. Purtroppo le dotazioni di scialuppe e salvagente raramente erano sufficienti per la massa dei prigionieri e in caso di affondamento si verificava una tragedia. In quel frangente equipaggio e presidio di guardia erano già impegnati nella propria salvezza, che li preoccupava più della sorte dei militari stranieri rinchiusi a bordo. Liberarli significava competere con loro per salire sulle poche scialuppe di salvataggio, con il rischio di venire travolti. Ci furono quindi casi di navi che andarono a fondo senza aver liberato i prigionieri, oppure di guardie che mitragliavano i boccaporti uccidendo chi tentava di uscire. Tali situazioni potevano essere causate da cinica crudeltà, ma anche da semplice paura, poiché in una nave che affondava saltavano le regole e molti erano disposti a sacrificare la vita degli altri, pur di non rischiare la propria. Comunque, anche quando i prigionieri venivano lasciati liberi di buttarsi in mare, senza imbarco e salvagente, la loro fine era molto probabile e solo rimandata, se non venivano soccorsi rapidamente. Se erano indeboliti da malattie o privazioni, mancava loro la forza di nuotare. Le scialuppe dei fortunati si allontanavano più che potevano, per non farsi trascinare nei gorghi della nave e per sottrarsi all’arrembaggio dei naufraghi, temendo di rovesciarsi o affondare per il sovraccarico. La somma delle circostanze fin qui descritte spiega l’elevato numero di prigionieri che perdevano la vita in caso di affondamento. Se non c’era naviglio di scorta, il sommergibile affondatore si avvicinava ai sopravvissuti per identificare la nave: in tal caso scopriva che il suo successo era costato la vita a tanti connazionali che non sarebbero mai tornati a casa. Un bilancio amaro, da accettare razionalmente come inevitabile, ma che sarebbe tornato infinite volte nella memoria, a turbare il sonno, chiedendosi se non sarebbe stato meglio fallire il bersaglio. Le vittime da “fuoco amico”, uccise per sbaglio, vengono spesso considerate come testimonianza delle assurdità della guerra, ma sono numericamente esigue rispetto ai tanti dispersi (decine di migliaia), che scomparvero in questo tragico modo.
Accanto al dramma da parte britannica dello Scillin, potremmo citare da parte italiana il caso del Laconia (affondato dai tedeschi) o delle navi tedesche da Rodi (affondate dai britannici) che trasportavano migliaia di prigionieri italiani.
Il Comandante del sommergibile britannico P212-Sahib, J.H. Bromage conseguì vari successi durante il conflitto, tra cui la violazione del porto di Milazzo e l’affondamento del sommergibile U301. A bordo del Sahib, il 24/4/1943, dopo aver affondato un mercantile di un convoglio italiano, subì caccia e affondamento da parte della scorta. I naufraghi del sommergibile subirono mitragliamento in acqua da un velivolo tedesco Ju88, con una vittima, ma furono salvati e fatti prigionieri dall’unità italiana.
Continua...
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