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Scrivici |Cavalleggeri sui trasporti Barbaro, Valfiorita, D'Annunzio
- Le vicissitudini del Reggimento Cavalleggeri di Lodi nel viaggio verso l'Africa -
Stemma del Reggimento Cavalleggeri di Lodi
Ringraziamo il Gen. Dario Temperino per averci inviato le fotografie di questa pagina e la testimonianza del Cavalleggero Domenico Giacomuzzi di Udine (classe 1914) e per aver consentito la pubblicazione dell'estratto dal libro: “Storia del Reggimento Cavalleggeri di Lodi (15°)” - Ed. 2001 - di Dario TEMPERINO
Motonave Francesco Barbaro
"...Il 21 (settembre 1942 ndr) tutti i mezzi del Reggimento (Cavalleggeri di Lodi ndr), col solo personale di accompagnamento, venivano istradati verso i porti di Brindisi e Taranto, e dopo qualche rinvio causato dalla strettissima sorveglianza delle squadre navali inglesi, tre navi armate partivano contemporaneamente dai due porti.
Il convoglio si formava in mare aperto solo il 28 successivo. Ma i trasporti non avevano tutti la medesima fortuna..."
La motonave da carico Francesco Barbaro, di 6343 tonnellate, era una delle tante navi mercantili requisite dalla Regia Marina durante la seconda guerra mondiale. Fu utilizzata dal giugno 1940 sino al suo affondamento nel settembre 1942. Già nel 1941 la nave aveva subito danni di rilievo in seguito ad un siluro che l'aveva colpita a poppa a 26 miglia da Capo Spartivento.
La sua sorte fu decisa mentre era in navigazione da Brindisi a Bengasi quando alle ore 16.40 del 27 settembre 1942 a circa 60 miglia da Navarino fu silurata dal sommergibile inglese Umbra (lo stesso che aveva affondato l'Incrociatore Trento il 15 giungo 1942 nella Battaglia di Mezzo Giugno).
Dopo il siluramento, fu tentato un rimorchio del Francesco Barbaro a Navarino, ma alle ore 04.41 del giorno 28 un incendio seguito da un'esplosione nella stiva segnarono la fine della nave che si inabissò con tutto il materiale ed i mezzi da combattimento del Comando di Reggimento Cavalleggeri di Lodi, dello squadrone comando, dello squadrone semoventi 47/32.
I superstiti sarebbero stati tratti in salvo dopo molte ore di angosciante attesa nelle scure acque del Mediterraneo. Quattordici furono i dispersi di cui non si seppe più niente.
Cerimonia di consegna allo Stendardo al Reggimento "Cavalleggeri di Lodi" (Pinerolo, luglio '42).
Sono riconoscibili: il Conte, Col. Tommaso Lequio d'Assaba, 17° Comandante del Reggimento; il Tenente Pirzio Biroli, Portastendardo; il Principe, Maggiore Vitaliano Borromeo Arese, Aiutante Maggiore in I^ (in secondo piano nel gruppo stendardo, con gli occhiali).
Il racconto dell'affondamento
Il cavalleggero Domenico Giacomuzzi, cl. 1914 da Sedegliano (Ud), uno degli uomini che accompagnavano i semoventi, ricorda:
“ Dopo alcuni giorni, lo Squadrone veniva caricato sulla nave da trasporto “Francesco Barbaro” per destinazione ignota.
In attesa della partenza, un compagno, che con me aveva prestato servizio di leva a Codroipo e che, nel frattempo, era di servizio nel porto di Brindisi, dopo le effusioni dell’incontro, mi proponeva una festicciola brindando al felice incontro insieme ai commilitoni Scruzzi e Pividori.
Il mio amico, nelle reciproche confidenze ci augurava di tutto cuore una libera traversata, soggiungendo che forse gli Alleati avevano già avuto sentore della nostra partenza e presumeva che stessero predisponendo l’attacco al nostro convoglio quando fosse stato in mare aperto.
Nonostante questa infausta confidenza, la serata trascorreva in allegria: eravamo giovani e spensierati!
All’indomani sulla nave, ad ognuno di noi veniva dato il salvagente. Quindi il Comandante (civile, come tutto l’equipaggio) volle darci le istruzioni nel caso la nave fosse affondata: il salvagente sempre addosso, le scarpe slacciate, gettarsi a mare solamente all’ordine : “ Si salvi chi può”, indi chiuderci le narici, ammucchiarsi e tuffarsi , allontanandosi il più lontano possibile, al fine di evitare d’essere risucchiati dai gorghi della nostra stessa nave.
Sulla “Francesco Barbaro” erano stati caricati carri armati italiani e tedeschi, autocarri vari, le dotazioni personali, oltre a tonnellate di esplosivi e munizioni. Tra il cospicuo contingente di rifornimento viveri, vi erano numerosi sacchi di farina, opportunamente disposti in punti strategici per attutire i danni da eventuali squarci provocati da colpi nemici.
Dopo la partenza, ci eravamo uniti in convoglio con una nave sorella salpata da Taranto, con tutte le garanzie di offesa e difesa: palloni frenanti, sei cacciatorpediniere di scorta, apparecchi sonar, ecc…, oltre a formazioni di caccia italiane e tedesche.
All’indomani, verso le quindici del 27 o 28 settembre, eravamo in coperta, gli equipaggi dei semoventi, in maggioranza friulani, Macuglia Primo, Scruzzi Anselmo, Pividori Luigi, Ballaben di Gorizia, Rosso Giuseppe, il sottoscritto, compreso il nostro Comandante Pirzio Biroli, quand’ecco giungere a turbare la nostra tranquillità la caccia italiana e tedesca che si lanciava in picchiata con raffiche di mitraglia verso i siluri nemici diretti alla nostra nave, siluri che si potevano intravedere dalla scia e che venivano colpiti prima di raggiungere il bersaglio.
Il momento era inquietante e tragico...
Purtroppo, dopo interminabili tentativi nemici, si sentì un grande boato: la nave era stata colpita a prua nel deposito della nafta. Dallo squarcio fuoriusciva il carburante ed entrava l’acqua, dando così inizio all’affondamento del trasporto.
Subito ci portavamo in poppa: in questi tragici, angosciosi momenti, si cercava di raggrupparci per concertare una manovra d’emergenza e salvare le nostre vite.
Io ed il gruppo di commilitoni a me vicino, ci sentivamo travolti dal caos, scoraggiati e sgomenti.
Nella confusione determinatasi, i tedeschi iniziavano dalla loro parte a staccare le scialuppe e vedevo una di queste ribaltarsi ed i tedeschi in mare, alcuni aggrovigliati dalle corde contorte e pensavo che tra qualche istante avrei potuto trovarmi anch’io in quella condizione, se non peggiore.
E’ indescrivibile l’angoscia, il terrore che provavo in quei momenti.
Alcuni italiani cercavano di sganciare una scialuppa, riuscendovi in parte: il mare, però, era mosso ed impediva alla barca di staccarsi dalla nave.
Vedendo questi tentativi dall’esito incerto, i migliori nuotatori si calavano in mare mediante corde di fortuna, ma le eliche in funzione ne risucchiavano alcuni nei loro vortici...
Fra questi vi era anche il nostro Comandante, il quale, intuita la pericolosità della manovra, istintivamente si aggrappava alla corda e risaliva a bordo. Da questo momento ho perso con lui ogni contatto. Presumo si sia salvato con altra scialuppa.
Non udendo il “Si salvi chi può”, io, Pividori e Scruzzi, decidemmo di tenerci uniti e, calatici da un’altra parte, iniziavamo a nuotare. Dopo poderose e parecchie bracciate, voltandomi non vidi più i miei due amici. Loro trovandosi in una posizione più lontana, dopo tre o quattro ore sono stati presi a bordo da una motobarca di una nostra cacciatorpediniera adibita alla ricerca dei naufraghi lontani, mentr’io, unitamente ad altri sventurati, raccolta una zattera lanciata dall’equipaggio della nostra nave e, remando con le braccia, abbiamo raggiunto la cacciatorpediniera, mentre sopraggiungevano le ombre della sera.
All’indomani, dopo questa tragica disavventura, durata interminabili ore, siamo stati sbarcati nel Peloponneso (Grecia) e, lasciatemelo dire, ho visto molti compagni baciare la terra, felici per lo scampato pericolo.
Il Comandante Pirzio Biroli (Portastendardo nella fotografia - ndr), ritrovandosi fra noi scampati, ha fatto l’appello dei rimasti, formulando profondo dispiacere per i militari mancanti.
Dopo circa un mese siamo rientrati in ferrovia al nostro Reggimento in Savona.”
Fin qui il racconto del reduce che, sia pure con qualche diversità, non si discosta nella sostanza a quanto racconta il cavalleggero Gabriele Cadeddu di Pinerolo, anch’esso sfortunato passeggero di quella nave.
Il Valfiorita e il D'Annunzio
L’altro trasporto su cui furono imbarcati i cavalleggeri del Lodi era il “Valfiorita”, una nave da 6200 tonnellate al suo primo viaggio.
Carico dei mezzi dello squadrone contraerei, del 2° squadrone motociclisti e del 1° squadrone autoblindo, sebbene squarciato a poppa dalle bordate di un incrociatore, il Valfiorita riusciva a riparare a Corfù senza ulteriori danni, sbarcando gli uomini.
Mangano testimonia nel libro alcuni particolari: “... dopo il siluramento si sono rotti gli apparecchi dei fumogeni che, invece di fumo, buttavano goccioline di cloro che bruciavano le stoffe e la pelle. Quando ci siamo arenati nella rada di Corfù, io avevo la sahariana, i pantaloni e le scarpe tutte bucherellate e la pelle della faccia, delle braccia e delle gambe piene di pustoline come avessi il vaiolo.
La “Valfiorita” era a venti metri dalla riva, con la prua in alto e la poppa che affiorava a un metro dalla superficie del mare.
Data la pericolosità della nave, siamo sbarcati con armi e bagagli e ci siamo accantonati nel villaggio di Potamòs, a cinque chilometri da Corfù. Eravamo aggregati ad una compagnia di fanteria della Divisione Acqui.
In questo villaggio la vita trascorreva con tranquillità. Rancio caldo e squadre di piloti ed autisti che andavano la mattina sulla ‘Valfiorita’ per fare una manutenzione ai mezzi in coperta. Nelle stive non si poteva scendere. Il villaggio era costituito da povera gente di pescatori e contadini. Penuria di vettovaglie, scarsissimo il pane.
Intorno alle nostre cucine c’erano immancabilmente bambini e persone anziane cui si dava sempre qualcosa da mangiare ...."
Il Valfiorita verrà in seguito rimessa in sesto: l'8 luglio 1943, in viaggio da Messina a Palermo, fu silurata dal sommergibile britannico Ultor. Sebbene incendiata, si riuscì a farla incagliare sulla costa. Successive esplosioni spezzarono lo scafo e ne causarono l'affondamento.
I cavalleggeri del Reggimento Lodi raggiungeranno l’Africa con la Nave D’Annunzio, come precisato nel libro:
"… Ai primi di novembre pervenivano i nuovi mezzi che subito erano fatti proseguire verso i porti d’imbarco da dove raggiungevano Tripoli quasi contemporaneamente a quelli in sosta a Corfù ed inoltrati sulla quarta sponda con la motonave D’Annunzio.”
Quest’ultima s’era presentata in rada, davanti a Potamòs il 2 novembre e subito, sotto l’energica direzione del tenente Vittorio Mangano, erano cominciate le operazioni di trasbordo dei mezzi da combattimento e degli altri materiali che erano rimasti sul “Valfiorita”.
La notte del 4, la nave salpava le ancore per la Libia ma, incalzata dai cacciatori inglesi, riparava nel porto del Pireo (Atene).
Ripreso nuovamente il mare solo dieci giorni dopo, sempre col favore dell’oscurità e facendo assegnamento su previsioni meteo che annunciavano giorni di burrasca - ma che proprio per questo garantivano una certa sicurezza - la D’Annunzio in balia del vento e di onde alte come palazzi, toccava il porto di Tripoli dopo tre giorni di burrascosa navigazione.
La nave immediatamente scaricata, veniva lo stesso pomeriggio semiaffondata in rada da un’incursione aerea avversaria.
Nota 1: secondo l'Ufficio Storico della Marina la motonave D'Annunzio affondò il 16 gennaio 1943, 60 miglia a sud di Lampedusa a causa di cannoneggiamento da parte dei cacciatorpediniere inglesi Paladin e Javelin.
Nota 2: Il Valfiorita è considerato uno dei più bei relitti del Mediterrano, raggiungibile solamente da subacquei esperti a causa della profondità (circa 70 metri su fondale sabbioso). Nelle sue stive sono ancora visibili una quantità di mezzi militari (camion, jeep, motociclette, sidecar). Molti siti internet dedicati agli appassionati di immersioni sui relitti propongono fotografie della nave.
Testimonianza tratta da: “Storia del Reggimento Cavalleggeri di Lodi (15°)” - Ed. 2001 - di Dario TEMPERINO, per gentile concessione dell'autore.
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