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Scrivici |55 giorni a Pechino
- 55 days in Peking - Regia di Nicholas Ray - con David Niven, Charlton Heston, Ava Gardner -
Avvertiamo che possono esserci rivelazioni sulla trama e sul finale.
E’ un famoso film in costume dalle grandiose e pittoresche ambientazioni, con un cast di attori notevoli. Sviluppa e racconta in modo coinvolgente l’assedio delle legazioni occidentali a Pechino nel 1900, durante la Rivolta dei Boxer. La retorica dell’assedio non è una novità nella storia della narrativa e del cinema, quasi sempre a favore degli assediati, pochi e minacciati, nelle condizioni quindi per essere eroi grazie soltanto al ruolo. La prospettiva di soccombere diviene sempre più probabile, aumentando l’angoscia, fino a quando arrivano i nostri e gli eroi diventano pure vincitori, il sollievo diviene trionfo. Se dunque il fatto storico garantisce in sé il successo di pubblico, si può investire in grandi attori e grandi scene, più di quanto avrebbe consentito un forte assediato dagli indiani. Il richiamo al West è forse favorito dai soldati blu americani e dalle musiche di circostanza, che qui si affiancano alle tante diversità occidentali ed orientali. Alla rude praticità americana di Charlton Heston si contrappone la finezza diplomatica inglese di David Niven, ovvero due mondi e due modi di essere, prima ancora di agire. Il dilemma, o gioco d’azzardo, impone di scegliere se rimanere rischiando grosso o ritirarsi perdendo tutto. Ma la forza che può proteggere gli occidentali è lontana e potrebbe essere inutile o tardiva. Se l’americano vorrebbe andarsene perché non ha la forza dalla sua parte, l’inglese vorrebbe rimanere perché spera che non serva. Gli altri rappresentanti delle grandi potenze sono destinati a fare da sfondo, quasi fossero comparse di scarso peso, in modo non tanto diverso dal relativo peso politico dell’epoca, e qui nel film la pluralità delle nazioni è un ulteriore elemento di colore. C’è la donna che si redime, il giovane mutilato, il bambino ferito, l’orfano, insomma niente viene trascurato per smuovere il pubblico. Tanto, dopo ogni lacrima, riprende la battaglia. La Cina in fondo vuole l’indipendenza e avrebbe le sue ragioni, ma la strada imboccata per affermarle (violenze, ambiguità, ipocrisia, aggressione di tanti contro pochi) permette di farle interpretare il ruolo del cattivo, così gli spettatori sanno subito da che parte stare. Se la narrazione è corretta ma prevedibile, l’ossatura del film si carica di mille episodi e aneddoti ed usa con libertà i fatti storici secondo convenienza. I Boxer e la connivenza imperiale ci furono davvero, la ferrovia fu realmente distrutta, il ministro tedesco fu ucciso (mentre andava a trattare), il deposito di munizioni saltò in aria (ma per incuria, non con un sabotaggio), e furono usati anche i razzi. L’arrivo dei soccorsi da Tientsin fu veramente in extremis, l’emozione fu probabilmente anche maggiore e la Storia giustifica ampiamente la celebrazione con un film.
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