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Scrivici |Un superstite del Trento: Diego Cogliandro
- Un sopravvissuto compie oggi 97 anni! -
Il Marinaio Diego Cogliandro - Matricola N.14794 - due immagini di cui la seconda lo raffigura nel 1942, nel Battaglione San Marco.
Ringraziamo Domenico e Giovanna per averci trasmesso parti del diario e immagini dello zio Diego.
Dopo tanti anni dall'affondamento del Trento pensavano fosse difficile trovare testimoni di quella tragedia del 15 giugno 1942. Invece abbiamo saputo che il Marinaio Diego Cogliandro, imbarcato sul Trento e sopravvissuto alla fine dell'Incrociatore, sta compiendo i 97 anni. Siamo dunque felici di pubblicare qui nel 2017 alcune parti molto interessanti del suo diario, quasi come se fosse un regalo di compleanno.
Diego Cogliandro, nato a Saline Joniche (presso Reggio Calabria) il 20 febbraio 1920, appena compiuti vent'anni salì sull'Incrociatore Trento il il 22 marzo 1940 e vi rimase durante la guerra fino alla perdita della nave. Fu poi trasferito a Pola nel Battaglione San Marco e infine trasferito nell'ottobre 1942 a Bordeaux (a Betasom), dove si trovava al momento dell'armistizio. Da quel momento fino alla fine del conflitto sarebbe rimasto prigioniero dei Tedeschi.
Diego descrive molto bene i suoi ricordi, sin dall'imbarco, con la difficoltà di un marinaio alle prime armi. Divenuto fuochista avrebbe vissuto le azioni di guerra dell'Incrociatore soprattutto dall'interno. Ma avrebbe avuto la fortuna di trovarsi lontano dalla sala macchine durante il siluramento fatale. Il suo racconto dei tentativi di rimettere in moto la nave e delle vicende dei naufraghi, si integra con altri racconti che abbiamo pubblicato. Una testimonianza viva e coinvolgente. Dalle sue pagine abbiamo scelto i punti più interessanti, la vita a bordo, gli equivoci di Punta Stilo, la bomba inesplosa di Taranto, il dramma del Trento nella battaglia di Mezzo Giugno.
Il Marinaio Diego Cogliandro imbarcato sul Regio Incrociatore Trento.
Vita a bordo del Trento in guerra
Io mi ricordo del Comandante Parmigiano, che era Ammiraglio di Divisione ed il più anziano, a bordo del Trieste. La nave portava la bandierina blu con due stellette poste a destra e a sinistra, issata sul pennone, a poppa della nave. Mentre la bandierina blu con le stellette sulle punte era sul Pola e stava ad indicare l’Ammiraglio di squadra della Regia Marina. Noi eravamo la II° Divisione composta da tre incrociatori pesanti che si chiamavano: Trento, Trieste e Bolzano. Poi c’era la I° Divisione che era composta dagli incrociatori pesanti: Pola, Zara, Fiume e Gorizia. Con Alfredo Parmigiano ovviamente non ho mai parlato, perché lo vedevo di rado, passava, ci mettevamo sull’attenti e ci salutava con un “ciao ragazzi”. Era gentilissimo. Parmigiano ci accompagnò fino ai lavori di riparazione a La Spezia. Proprio sull’incrociatore Trieste fece la sua manovra più audace, durante un combattimento riuscì a schivare due siluri che passarono laterali, ne parlarono tutti i giornali. Il luogo era quasi sullo stretto di Messina, era stato un sommergibile.
Sull’incrociatore Trento Il deposito munizioni era sotto la torre binata dei cannoni. I colpi erano portati da carrelli che caricavano i cannoni. Quando erano pronti Il capo cannoniere avvertiva il Direttore di tiro, che era sulla torre. Questi brandeggiava, puntava e faceva partire i colpi due alla volta.
Nella nave c’era una fratellanza unica. Quello terribile era il capo reparto dei fuochisti. portava i capelli sempre a zero e pure noi eravamo costretti a raparci in continuazione. Al mattino, quando c’era l’adunata, era il momento peggiore. Avevamo tutti paura di lui. Mentre l’aiutante Capo Felice era un brav’uomo. La disciplina era rigorosa. Bastava fare una stupidata e si beccavano giorni di consegna.
Io dormivo sulla linea dei siluri, in branda che era uguale alla “naca” (culla appesa sul letto matrimoniale) dei bambini, era provvista di telo, materassino, si attaccava sui bordi d’acciaio della paratia. Il nostro posto di riposo, quindi non era una camerata, anzi era anche un posto di passaggio, passavano tutti. Alcune volte la branda scompariva, perché la rubavano.
Che io sappia, i siluri in battaglia non sono stati mai usati, forse solo una volta li ho visti caricare e mettere in azione. Il siluro non partiva sott’acqua, ma saltava in mare, perché l’uscita era a circa 1,5 metri dall’acqua.
Mi ricordo di Nino Tripodi che era imbarcato con me ed era di Melito P.S. e abitava vicino la chiesa di Porto Salvo, era cannoniere e riforniva i pezzi. Chi comandava ai pezzi era il primo direttore di tiro, che si trovava sulla “confetta” in plancia, il più alto di tutti.
Io facevo parte della squadra fuochisti. Ogni turno era composto da 10 a 12 persone. C’era un maresciallo, capo meccanico, che si chiamava Capo Giovanni, un secondo capo era siciliano. Ogni turno era di quattro ore, 4 di guardia e 4 di riposo. Due squadre per ogni caldaia. Turni continui quando si era in navigazione. Passava il “pennese” che ci svegliava. Il cambio veniva sempre in orario.
Sulla nave c’erano 8 caldaie, 4 a prora e 4 a poppa, con le pompe di alimentazione in mezzo, io ero alla regolazione. Il Trento a regime arrivava a 20 nodi, ma si raggiungeva anche i 30 nodi. Noi fuochisti eravamo il cuore della nave. Sopra le pompe c’era una specie di microfono che ci avvertiva se aumentare o diminuire la velocità. Il nostro compito, tra gli altri, era di fare da scorta ai convogli da e verso l’Africa che portavano rifornimenti alle nostre truppe.
Il rancio sulla nave di mattina era costituito da caffèlatte con mezzo panino con marmellata, a mezzogiorno si alternavano legumi o riso con pasta col sugo. La sera si mangiava alle cinque sempre con un primo o un secondo. Si mangiava su dei tavoli smontabili, nel posto branda, avevamo dei posti assegnati, ogni tavolo era costituito da dodici posti.
Il Caporancio era un sergente, ognuno aveva il suo compito. Lo stipettaio apriva il tavolo, preparava la tovaglia, le posate, i bicchieri, la forchetta, il cucchiaio. C’era il bidonaio che andava a ritirare il vino a prua. Uno di noi, che in quel momento non aveva incarico, era di gamella, cioè doveva andare in cucina prendere la gamella con il suo numero e andava dal cuciniere, gli faceva vedere il numero del tavolo e riempiva la gamella con il rancio.
Immagine dellla prora del Regio Incrociatore Trento in navigazione. Il ponte continuo (flush-deck) aveva la prora abbastanza bassa con onde frequenti a bordo per mare formato.
Ricordo di Punta Stilo e di Taranto
Punta Stilo:
La prima battaglia a cui ho partecipato fu quella di Punta Stilo l’8 luglio 1940. Di questa battaglia mi ricordo che ci hanno bombardato gli aerei italiani, avevamo la prora bianca, ma con la calce, il mare era molto mosso, saliva da prua e scendeva da poppa. Verso le nove abbiamo iniziato a sparare contro gli inglesi. Gli aerei italiani ci bombardavano perché non avevamo più la prora bianca. La calce era stata posta per ordine del Ministero della Marina, lo scopo era quello di avvisare gli aerei italiani di non bombardare le navi che avevano la prora bianca e differenziarci dalla flotta inglese, invece il mare mosso tolse la calce e gli aerei non distinguevano più le navi e ci bombardavano. Questo l’ho saputo perché un giorno abbiamo imbarcato un aviere destinato a pilotare l’aereo che avevamo a bordo. Questi ci confermò, dato che era stato della battaglia, che non vedendo la prora bianca si mise a bombardare. Da lassù non si capiva quali navi fossero inglesi e quali fossero italiane.
Già nella battaglia di Punta Stilo io avevo il mio ruolo. Ero fuochista alle caldaie di prora. Non abbiamo subito perdite, il Cesare, la corazzata da 25.000 t, è stato colpito al fumaiolo da un proiettile di artiglieria inglese, ma nonostante tutto la nave è rientrata da sola a Messina, al largo del porto sono usciti i rimorchiatori l’hanno agganciata con i cavi e l’hanno rimorchiata. L’altra corazzata, il Cavour, non subì danni. Gli aerei italiani ci hanno bombardati fino a Messina e noi rispondevamo al fuoco. Il Cesare è rimasto a Messina, gli altri sono andati a Taranto. Al ritorno sono passato praticamente da casa per arrivare a Messina e lì dalla spiaggia mia madre ha visto tutta la divisione navigare e bombardata dagli aerei italiani.
Taranto:
Il 12 novembre 1940, verso sera, è suonato l’allarme, dalla branda siamo passati al posto di combattimento. Io sono sceso volontariamente in caldaia. Io non ero di turno ed eravamo all’ancora nel Mar Piccolo. Lì mi sono sdraiato affianco la paratia, dopo due – tre minuti sento aprire la porta della garitta di sicurezza e sento scendere. Si apre anche l’altra porta che serve la scala per scendere in caldaia e vedo il Maggiore-macchina che mi dice “ La chiave dello stipetto c’è l’hai? Io gli dico “ Sì, Signor Maggiore lo stipetto è quasi aperto”. Prenda la chiave della manica a vento di prua. La manica a vento era un tubo dove entrava l’aria che faceva respirare la caldaia, ed io dovevo aprire lo sportello. Il motivo lui già lo sapeva, io no. Comunque, sfilo i bulloni, tiro lo sportello e vedo come un vitello coricato; gli dico “ Signor Maggiore, ma qui c’è una bomba” mi risponde “Sì lo so ragazzo!!”. Praticamente un aereo aveva sganciato questa bomba, era finita sopra un cannone prodiero da 100 mm, era passata affianco la fontanina spruzzante, dove c’era l’acqua potabile, ed era finita in caldaia. Allora dico al Maggiore che risalgo perché ho paura. Appena vado ad aprire la porta di sicurezza della caldaia il Capo reparto da sopra mi intima di chiudere. Il Maggiore gli dice “Cogliandro ha trovato la bomba!”. Quindi dopo un pò l’hanno agganciata e l’hanno tirata fuori. La bomba era di 120 kg, e l’aveva sganciata un bombardiere (n.b. al comando del bombardiere inglese erano Clifford-Going sull’L5f che condussero l’attacco contro il Trento e il Miraglia). L’allarme finì verso l’1.30 di notte. E iniziammo l’opera di soccorso.
Sezione longitudinale del centro della nave con i locali motrici di prora e di poppa (da Incrociatori Italiani - U.S.M.M.). Foto aerea britannica del Trento immobilizzato con incendio a bordo, ore 7.00 circa (Storia della Marina Vol.4 pag.1158 Fabbri Editori).
L'affondamento del Trento - 15/06/1942
Siamo partiti da Messina nel tardo pomeriggio del 14 con tutta la Divisione. Ovviamente le missioni noi non le sapevamo, soprattutto i marinai di sottocoperta. Durante la battaglia sentivamo i colpi, ma l’andamento dello scontro lo ignoravamo, a differenza, ovviamente, dei cannonieri. Al rientro riuscivamo, parlando con gli altri, a capire come erano andate le cose. I fuochisti scendevano sottocoperta, nelle caldaie, finivano il turno ed andavano in corazza. Quando si finiva il turno eravamo molto stanchi e stressati, perché eravamo sempre in attesa di ordini, sempre a controllare le caldaie e i manometri, eravamo il cuore della nave. Dovevamo sempre controllare le valvole di pressione, perché se calava la pressione diminuiva l’andatura della nave. Le comunicazioni le faceva il capo macchina o il maggiore o qualche tenente attraverso un apparecchio che prima suonava e poi comunicava: “ a tutta forza…., adagio…., aumenta piano…,pressione….”. Io, solitamente, regolavo l’acqua che doveva entrare nelle caldaie, ognuno aveva il suo compito, ogni tanto le pompe perdevano nafta ed allora si metteva una latta di dieci o venti litri, quando era piena si portava al magazzino dove il maresciallo contabile rifaceva la stima della nafta consumata.
Si camminava in formazione. Io inizio il mio turno a mezzanotte e smonto di guardia alle 4 del mattino, mi prendo la maschera antigas e vado in branda. Incontro il maresciallo, aiutante di reparto, Capo Felice, mi ricordo che era una macchietta, forse era di Venezia, mi dice “…posto di guardia… “…non dormire…” . Probabilmente, sapevano che dovevamo rimanere all’erta. Comunque, non ascolto l’aiutante e in dialetto gli dico di farmi dormire, lui mi apostrofa con un “…terun…”. Allargo la branda a terra per coricarmi, si diceva in corazza. Mi ero appena inginocchiato per stendermi, ecco che sento un botto e la nave sbandare. Da quando ho lasciato le caldaie sono passati pochi minuti. (incongruenza con le fonti ufficiali che riferiscono il primo attacco alle 5.15 del mattino).
Salgo in coperta, e mi accorgo che la nave era stata colpita da un siluro nella caldaia di prua. E’ iniziato un grosso incendio, i carpentieri intanto mettevano legname contro le pareti. I ragazzi che mi avevano dato il turno erano tutti morti, anche il maresciallo Capo Giovanni. Lo ricordo come un grande maresciallo. La nave oscillava. Non si vedeva niente, nessun nemico. Arriva il Pennese e mi dice: “ Cogliandro sei di guardia”. Mi voleva portare di sotto nella caldaia di poppa, dato che quella di prua era andata. Io mi rifiuto. Gli dico che non voglio morire. Io andavo avanti ed il pennese mi veniva dietro e mi diceva: “ Cogliandro vedi che vai a finire a Gaeta”. “Non me ne importa, tanto sono vivo se finisco lì”. Lui continuava: “Cogliandro prendi le mie parole se dobbiamo morire moriamo, se dobbiamo vivere viviamo.
Così facendo siamo arrivati davanti alla garitta della caldaia di poppa. Seduto c’era il maggiore-macchina. Si gira verso di me e mi dice: “Ragazzo, che sei di guardia?” Gli faccio, “Sì, mi hanno messo di nuovo a me”. “Scendi”, mi implora, “scendi, così c’è ne andiamo da questo inferno”. Lo guardo seduto su quella valvola, con quelle parole mi ha spezzato il cuore. Non ho più paura, apro la porta della garitta, e scendo. Trovo un maresciallo, un secondo capo, io non li conoscevo perché erano la squadra di poppa. Mi dicono se ce la faccio ad accendere la caldaia a sinistra. Gli dico di sì. Apro il polverizzatore, prendo lo stoppino e lo infilo dentro la camera di fuoco. La caldaia era come una stanza dove entrava acqua che la trasformava in vapore acqueo e mandava il vapore nei collettori superiori e laterali che mandavano potenza alle macchine.
Ad un certo punto sento uno scoppio che non finisce mai, sono le nove. Butto tutto, mi aggrappo alla scala, esco e chiudo la garitta. Sono in batteria, riprendo l’altra scala per uscire fuori, inciampo, cado, ma mi riprendo subito. Sono in coperta. Ho un attimo di sgomento, un inferno dantesco, in coperta c’è il finimondo, feriti, morti, fuoco, schegge, urla, lamenti. Mi riprendo, mi devo salvare. Ricomincio a correre, salto, fino ad arrivare a poppa estrema. Intanto mi stringo il salvagente, mi tolgo le scarpette, esco fuori delle catene, e mi tuffo a piedi sotto.
Appena arrivo in acqua comincio a fare la frenata, cioè allargo le gambe, quindi freno e ricomincio a risalire, non ho più aria, ma mi accorgo che sto risalendo sotto le eliche, e le sfioro con la testa. Comincio a nuotare per allontanarmi il più possibile dalla nave, raggiungo la distanza di circa 50 metri, quando comincio a vedere la nave che lentamente si alza fintanto che non si impenna e scompare tra i flutti con un boato che sembra un animale ferito. Per la seconda volta rimango attonito, la nave stava scomparendo. Mi ritrovo con altri naufraghi, c’è chi piange, chi grida, chi urla “Trento….Trento….” , era come se stesse morendo tua madre. Poi più nulla.
Rinvengo, allora mi sono tolto i pantaloni, la bisaccia, ero praticamente nudo, il mare era con un’onda lunga, scendeva e saliva. Vedo due cacciatorpediniere. Uno fermo e l’altro che girava attorno che buttava bombe di profondità e noi in acqua li sentivamo. Io sono assieme a due compagni, ricominciamo a nuotare fintanto che non ci avviciniamo ad una motobarca. Arrivo tra i primi. Ci calano la scala dal cacciatorpediniere e salgo sul ponte. C’era un Tenente di Vascello, mi dà da bere, ero vicino a 4 o 5 marinai e bevevamo tutti. Subito lo stomaco non regge e vomito, faceva freddo ed eravamo praticamente nudi. Dopo qualche ora, altre motobarche erano vicine al cacciatorpediniere, tutti i naufraghi erano stati presi a bordo. I due Ct partono dal luogo della tragedia, direzione Messina.
Ad un certo punto la terra si vedeva, e riconosco una roccia, rassomigliante a quella di Pentidattilo, mi sono reso conto che passavo vicino casa, poi ho visto Capo d’Armi, Reggio Calabria, e la prua della nave puntare verso il faro del porto di Messina. Attracchiamo, eravamo circa 400 naufraghi, i graduati, il Maggiore-macchina, mentre il Comandante Esposito era affondato con la nave. All’epoca i comandanti affondavano con le loro navi.
Ci hanno fatto attraccare in un posto periferico del porto, eravamo tutti nudi, non era uno bello spettacolo. Erano quasi le cinque del pomeriggio, lì ci aspettavano con i camion per portarci al deposito di Messina, all’interno le brande erano tirate, pronte per andare a dormire, ma prima siamo passati dall’infermeria, lì ci hanno fatto una puntura alla schiena e poi subito in branda. Ho dormito pesante fino al mattino, quando è suonata la sveglia erano quasi le otto.
Ci hanno portato al magazzino vestiario. In base agli anni di servizio ti rifornivano. Mi hanno dato due paia di pantaloni blu, “una camisaccia”, una divisa da lavoro, un paio di scarpe alte, un paio di scarpette, gli indumenti interni, le calze, ecc. Li abbiamo matricolati, e ci hanno fatto mangiare. Un giorno dall’altoparlante si sente: “Attenzione…attenzione… tutti quelli che vengono nominati si presentino dall’aiutante. Questi ci dice di aspettare che l’Ufficiale-Ispezione ci dirà tutto. I chiamati eravamo una cinquantina e ci dicono che dobbiamo partire. Domandiamo per dove, ma, ovviamente, non abbiamo trovato risposta. La troverò dove qualche giorno, quando arriverò a Pola inquadrato nel Battaglione San Marco, la mia guerra non era finita.
Diego Cogliandro
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