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Scrivici |Bombardamenti visti dall'alto
- La realtà del bombardamento aereo vista dagli aviatori -
Quadrimotore USA B24 Liberator in azione - 7 anni di guerra.
I grandi quadrimotori da bombardamento della seconda guerra mondiale erano velivoli potenti, pesanti, impegnativi, complessi, spartani e richiedevano un numeroso equipaggio dove ogni membro aveva la sua specializzazione. Oltre al pilota e copilota (secondo pilota in grado di sostituire il primo nelle lunghe e rischiose missioni), vi era il navigatore (che controllava rotta e posizione), il bombardiere (addetto al puntamento e sgancio), il motorista (per riportarti a casa), il radiotelegrafista, i mitraglieri di fusoliera, ventrale. di coda, per un totale di otto, nove o dieci aviatori. Chi narra di quel periodo, ci dice che manovrare un Liberator B24 significava portare in cielo un gigantesco camion con quasi cinquemila cavalli turbocompressi e quattromila chili di esplosivo. Richiedeva un vero lavoro di squadra. Le condizioni di servizio erano dure e difficili per la durata dei voli (otto o nove ore), la quota (tra i settemila e diecimila metri, con l’ossigeno e temperature sotto zero), il volo in formazione a breve distanza da altri aerei (fonte di rischio e di tensione), le scomodità di un aereo militare (tra armi, metallo, vento), con lo stress derivante dalla contraerea e dalla facilità di incidenti. Il decollo, stracarichi di benzina e bombe, uno dopo l’altro, e l’atterraggio, spesso con l’aereo danneggiato o l’equipaggio ferito, non erano certo paragonabili a quello di un velivolo solitario in tempo di pace. Per non parlare di atterraggi di fortuna su piste troppo corte o la necessità di gettarsi col paracadute. La costituzione di forze aeree enormi ed efficaci in tempi brevi richiese un intenso addestramento di grandi masse di aviatori inesperti, per adeguarsi alle normali difficoltà di operare in volo, prima di cimentarsi con il combattimento. Anche questo comportò un alto numero di incidenti e di vittime al di fuori delle missioni belliche. Chi arrivava al teatro di operazioni aveva già visto diversi compagni e interi equipaggi perdere la vita. Preparati psicologicamente, si decollava con il proprio equipaggio, non distanziati con più velivoli sulla stessa pista (per economizzare benzina, senza dover attendere il decollo degli ultimi) per procedere assieme in formazione stretta e pericolosa, essenziale per sommare la propria potenza di fuoco e non lasciare spazio ai caccia. Una collisione però, abbastanza frequente, poteva causare decine di morti. Incidenti tipici e fatali potevano essere come l’incendio di un motore colpito (in pochi minuti portava all’esplosione dei serbatoi alari), che doveva essere spento a distanza, disimpegnando l’elica perché non rallentasse l’aereo. Una bomba incastrata nel vano bombe poteva rendere impossibile il ritorno a terra. Un carrello guasto poteva portare al disastro in atterraggio, schiacciati, o disintegrati, o bruciati vivi. Capitava addirittura di venire bombardati per errore da altri che volavano sopra, in terrificanti esplosioni a catena. Avvenne anche a un Lancaster su Milano. Ma anche guasti minori avevano gravi conseguenze. L’interruzione dell’impianto idraulico significava trovarsi senza freni al ritorno e schiantarsi contro baracche ed alberi, per cui si rimediava gettando fuori all’ultimo i propri paracadute legati alle mitragliatrici, sperando che si aprissero per fermarsi in tempo. In linea di massima i Britannici bombardavano di notte per evitare la contraerea, dedicandosi a bersagli vasti e urbani, spesso illuminati da incendi o da segnali di velivoli apripista che li avevano preceduti, mentre gli Statunitensi bombardavano di giorno per mirare i bersagli strategici, usando quote più elevate sui diecimila metri per ridurre l’effetto della contraerea. Generalmente vi era un Punto di Inizio dell’attacco da cui si prendeva la rotta del bersaglio e si seguiva il bombardiere guida per la sincronizzazione del bombardamento. La guida aveva il leader, gli esperti migliori, e tutti lo imitavano. Con nubi o scarsa visibilità ci si poteva affidare agli strumenti e al radar. In caso di fallimento o rinuncia le bombe venivano sganciate comunque altrove (su territorio nemico) o in mare perché l’atterraggio con quel carico era troppo pericoloso. La contraerea in alta quota dipendeva dall’importanza dell’obiettivo, più difeso in Germania, e spesso si presentava come un “muro”, con zone riempite sistematicamente di colpi che i quadrimotori dovevano attraversare. Il tipico scoppio di uno “shrapnel” (proiettile che esplodeva da solo ad una certa altezza) lanciava schegge affilatissime capaci di attraversare le sottili fusoliere d’alluminio, tagliando di tutto, dai corpi alle tubazioni. In caso di danni gravi l’aereo poteva esplodere o precipitare, e poteva non esserci il tempo per uscire da posizioni anguste, prepararsi ed effettuare il lancio col paracadute. Basti pensare al mitragliere ventrale del B24 che doveva essere tirato su con un comando idraulico dal compagno, e talvolta non c’era spazio per indossare prima il paracadute. La caccia nemica si riduceva notevolmente alle quote più alte, per l’esigenza di velivoli specializzati (con ossigeno, armi potenti, alta velocità o turbine a reazione, come lo Schwalbe Me262), a cui venivano contrapposti caccia adeguati, con grande autonomia (capaci di scortare i bombardieri fino a Berlino e ingaggiare combattimento, come il Mustang P51). L’avanzata sul fronte meridionale e occidentale, con aeroporti sempre più vicini alla Germania e Nord Italia, facilitava la predisposizione dei bombardamenti. Ai ricognitori inviati sul posto dopo il bombardamento (come Mosquito bimotori, veloci ed agili, in legno) spettava il compito di rilevare fotograficamente i risultati, in modo da decidere ulteriori attacchi o meno. Gli equipaggi dei bombardieri avevano infatti un rapporto impersonale e distante con i loro bersagli, in quanto non era possibile vedere l’effetto delle loro azioni da quell’altezza. Era raro anche vedere il nemico e il rapporto con la guerra era dominato dalla lenta decimazione di compagni che scomparivano, sperando di tornare a casa e che tutto finisse prima di morire, magari nell’ultima missione. Erano gente normale, di ogni provenienza, anche dalle campagne del Dakota come un certo McGovern, ex pilota di Liberator sulla Germania, che quasi trent’anni dopo sarebbe stato senatore candidato alla presidenza.
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