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Scrivici |Altre testimonianze dell'affondamento del Conte Rosso
- Ricordi dei superstiti -
Il Conte Rosso, con i colori del Lloyd Triestino. Cartolina Rizzoli e C. - Milano. Ringraziamo i signori Roberto Sauro Guardiero, Paolo Vescuso, Corrado Codignoni, per le testimonianze che ci hanno cortesemente inviato.
Il siluramento, il naufragio.
Il 24 marzo 1941, alle ore 20.40 di notte il grande transatlantico Conte Rosso venne silurato mentre stava trasportando truppe in Nord Africa. A bordo vi erano 2729 persone, di cui 1297 persero la vita. Una tragedia che non si dimentica, sia per chi vi perse un familiare, sia per chi visse quei drammatici momenti.
Dopo avere pubblicato alcune pagine sull'affondamento del Conte Rosso, e i ricordi di alcuni protagonisti (Angelo Padello, Mario Busatti), altri ancora ci hanno scritto: parenti delle vittime, superstiti o loro familiari, ognuno col desiderio di mantenere la memoria dell'accaduto. Riportiamo qui alcune testimonianze che abbiamo ricevuto.
Immagini di Giuseppe Sauro, il Conte Rosso, l'orologio fermo all'ora del naufragio.
Giuseppe Sauro
"Mio padre, Giuseppe Sauro, nato a Treviso il 4/12/1920, era militare a Napoli nel 1941 (mi parlava spesso di una caserma vicino ai
"Granai") e aveva l'incarico di portare, dalla sede del comando della Marina, plichi sigillati ai comandanti delle navi militari ancorate in
porto.
Non gli piaceva stare in caserma, voleva andare in Africa per conoscere nuovi ambienti, era attratto dagli spazi infiniti, per lui
l'Africa incarnava le sue aspirazioni. Più volte fece domanda, ma inutilmente. Allora tentò la via clandestina.
S'imbarcò una prima volta in una nave trasporto truppe tedesche, ma venne scoperto all'inizio del viaggio, nascosto in una delle
scialuppe di salvataggio, da una ronda accompagnata da un cane lupo
addestrato; rischiò di essere fucilato ma poi, per intercessione del
comandante e data la vicinanza al luogo di partenza, venne calato su
una piccola imbarcazione che era stata chiamata nel frattempo, e rispedito in
caserma.
Una seconda volta, nascosto con l'ausilio di alcuni compagni,
riuscì ad arrivare in Africa, ma, appena toccato il suolo, venne riconosciuto come irregolare, riportato a bordo, chiuso in una cabina-
cella, e rimandato a Napoli.
La terza e ultima volta fu quella del Conte Rosso. Consegnato il solito plico sigillato al comandante, e riconosciuto fra i soldati
imbarcati un amico di nome Fabio, ne approfittò per nascondersi tra
gli altri commilitoni e attese la partenza della nave.
I due siluri
arrivarono subito dopo la cena e fu panico generale. Gente che si
urtava, si accalcava, si calpestava per guadagnare una via di fuga,
l'acqua che saliva negli "alloggi truppa", urla di aiuto e di
imprecazione, rumore sconvolgente dell'acqua che entrava violenta e
inesorabilmente tagliava le uscite, terrore di uomini intrappolati
senza scampo.
Mio padre, con un gruppetto fra cui anche Fabio,
trovò come unico passaggio un oblò: il primo a infilarsi fu Fabio, un
ragazzo dal giro vita un po' consistente, ma non riusciva a
passare. Allora gli altri del gruppo lo sfilarono tirandolo per le
gambe. Si decise rapidamente di far entrare il più smilzo, Giuseppe,
che non ebbe difficoltà e che poi avrebbe aiutato Fabio, tirandolo lui
da sopra e spingendolo gli altri da sotto.
La manovra non riuscì
anzi Fabio divenne il sigillo di una tomba.
Era buio in
quell'inferno con quel turbinio di corpi che correvano, inciampavano e
si scontravano, e mio padre si trovò schiacciato verso quella che
forse era una scala di corda. Con la forza della disperazione vi si
arrampicò spinto dal flusso dei compagni in fuga, calpestato e
calpestando corpi bagnati e scivolosi. Arrivato finalmente in cima,
si trovò di fronte al "precipizio": era il parapetto, forse a poppa.
La paura di buttarsi era tanta.
Nel frattempo arrivavano alla spicciolata vari militari. Chi si
fermava come lui, chi si buttava, chi veniva spinto e spariva urlando
nel vuoto liquido.
Il mio papà che non sapeva nuotare, si lasciò
cadere. Sentì un colpo violento alla testa, come il pugno di un
pugile. Il salvagente che indossava si prese alcuni denti e gli
lasciò un bel taglio al mento.
Piovevano corpi, corde, tavolati
grandi e piccoli, i più svariati oggetti, difficile salvarsi. Quell'acqua impregnata di nafta si attaccava alla pelle, ai
vestiti strappati (mio padre venne ripescato nudo).
Le mani e le
braccia si stringevano istintivamente a qualunque oggetto galleggiante
e lo abbandonavano solo per un altro più grande. Ma troppi si
aggrappavano allo zatterone del mio papà e più volte il sostegno si
rovesciava facendo scivolare tutti in acqua.
Alcuni sprofondavano
senza più riemergere, altri recuperavano la zattera, chi pregava in
silenzio, chi invocava la mamma, altri (come mio padre) persero
conoscenza.
Fortuna volle che passassero la notte senza vivere il
terrore di morire annegati o mitragliati dagli aerei inglesi che si
pensava presenti in zona.
Il mattino dopo venne ripescato assieme ad
altri con una grossa rete, come per i pesci, perchè troppo unti e
scivolosi erano i loro corpi.
Sulla nave vennero irrorati di acqua
finalmente pulita, ripresero a poco a poco conoscenza e passarono
qualche giorno a rimettersi dalla disgrazia.
I suoi genitori non sapevano ovviamente nulla dell'avventura, anzi
erano stati informati che risultava disperso a seguito di un
bombardamento a Napoli. Figurarsi la sorpresa quando venne recapitato
loro, alcuni giorni dopo, un telegramma che indicava il loro Giuseppe
come naufrago vivo del Conte Rosso.
Conservo ancora l'orologio che portava al polso quella notte,
fermo all'ora dell'affondamento. Mio padre è morto il 29 ottobre 2008.
Racconto gentilmente trasmesso dal figlio Roberto.
Riportiamo anche altri racconti della vita di Giuseppe, per meglio comprendere e capire cos'altro ha vissuto, prima e dopo il Conte Rosso:
"Egli non ha mai conosciuto i suoi veri genitori: nato da una "ragazza-madre" abbandonata subito dopo essere rimasta incinta, rimasto orfano di mamma in tenerissima età (due anni, più o meno), rifiutato assieme alla madre dai parenti che non avevano la possibilità di prestare alcun aiuto, passò tutta l'infanzia in un collegio di religiosi. L'edificio esiste ancora (ha un'altra finalità), più volte me l'ha mostrato passandoci accanto, lui in bicicletta ed io piccino seduto sulla canna; è accanto ai binari della ferrovia e i treni che passavano finirono per essere il desiderio di evasione da quel luogo dove nessuno veniva a trovarlo, uno zio, un papà, una mamma. Tutti i suoi "compagni di sventura" ricevevano qualche visita ogni tanto...
Dopo una decina d'anni venne adottato e la sua vita si rischiarò, ma l'assenza della mamma vera gli ha scavato nell'animo un vuoto mai colmato. Negli ultimi anni si era messo a scrivere piccoli componimenti, talora poesie, in cui era facile scorgere il motivo conduttore della sua vita, anzi del "vuoto" della sua vita mai riempito.
Dopo la vicenda del Conte Rosso, fu mandato a Dubrovnik, dove rimase fino all' 8 settembre del '43. In piena notte la caserma dove alloggiava fu circondata dai militari tedeschi, lui e gli altri italiani furono disarmati, caricati in carri bestiame e, dopo svariati giorni di viaggio, si ritrovarono a Dusseldorf.
Altre sofferenze, altri orrori, tanto freddo e tanta fame: si raccattavano di nascosto le bucce delle patate dalla discarica per cuocerle alla meno peggio e cibarsene. Di notte era proibito coricarsi indossando più vestiti per ripararsi dal gelo (la punizione, immediata, consisteva nel marciare nudi di notte all’aperto, e buttarsi a terra, a comando, senza scansare buche, pozzanghere, sassi, o altro). Al mattino i prigionieri più robusti dovevano caricare su carriole i morti della notte, per freddo o per sfinimento, e scaricarli in una grande fossa-cimitero. Oggi in cui scrivo è il giorno della Shoah e ciò che ha passato mio padre è ben poca cosa al confronto."
Ulteriore racconto gentilmente trasmesso dal figlio Roberto.
Disposizione dei principali locali sul Conte Rosso, per il Lloyd Sabaudo.
Giuseppe Vescuso
"Mio padre Giuseppe nel 1941 era un giovane carabiniere (originario di Caserta) e come tanti altri militari gli fu impartito l’ordine di imbarcarsi per una missione in Libia. Vi scrivo perché il ricordo di quella tragedia ce lo raccontò tantissime volte e quando parlava ci spiegava gli avvenimenti: era come se vedessimo un film.
Ci diceva che, per fortuna prima di essere imbarcato, gli fecero fare una specie di corso di nuoto e di sopravvivenza in caso di naufragio ed anche questo gli salvò la vita.
Con grande commozione ci narrava di quei terribili minuti dopo che due siluri centrarono la nave: disorientamento, panico, confusione totale in tutto l’equipaggio. Giovani ragazzi che si buttarono a caso così d’istinto che cadevano gli uni sugli altri. Un impazzimento generale (si può e si deve capire) che alla totalità dei militari non lasciava scampo a riflessioni.
Mio padre, con pochi altri, ebbe la lucidità di aspettare, guardare, riflettere e decidere. La nave si impennò in una decina di minuti ed affondò, ma lui con un altro gruppo si buttò dal lato opposto di dove la nave si stava inabissando. In acqua caos, grida, disperazione, morte e vita insieme; era tutto mischiato e tutto amalgamato da un mare nero che era diventato un lago di nafta densa ed oleosa che penetrava nel naso e sulla pelle.
In pochi riuscirono ad agguantare un grosso tronco di legno galleggiante e pregando Iddio guardarono le stelle, pensando che forse quella era l’ultima notte della loro vita.
Poveri giovani. Anche se la Patria li chiamò, la vita in quei terribili momenti era più importante di tutto. In quelle ore ognuno ricordava la propria esistenza e resistere fu un obbligo per rivedere genitori, fratelli, amici ed amori lasciati a casa.
Finalmente all’alba arrivarono i soccorsi ma quello che restava in quel lago nero fu un’immagine devastante che accompagnò i salvati per tutto il resto della loro vita, mentre per altri circa 1300 non ci fù questa fortuna.
Peccato che questo triste episodio di guerra non sia molto conosciuto ma certo una rievocazione, con un film od una fiction televisiva, sarebbe opportuna per non dimenticare certi orrori che una guerra produce."
Racconto gentilmente trasmesso dal figlio Paolo.
Immagine di Corrado Codignoni con altri marconisti durante la guerra.
Corrado Codignoni
"Il primo gennaio 1941, durante la Seconda Guerra Mondiale, all’età di 20 anni, sono stato chiamato alle armi. Venni arruolato nel genio marconista a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Mi fecero imparare subito l’alfabeto morse. Mi impegnai moltissimo fintanto che riuscii a ricevere e a trasmettere ad un velocità rispettivamente di 80 e 70 caratteri al minuto. Fu un successo e ne andai orgoglioso, ignaro delle conseguenze. Infatti, considerato il risultato raggiunto, insieme ad altri militari, venimmo destinati in Africa.
Così il 24 maggio 1941 siamo stati condotti nel porto di Napoli. Erano quattro le navi che ci stavano aspettando: il Conte Rosso, l’Esperia, il Marco Polo e il Littoria. Ognuna di queste navi principali era protetta su entrambi i lati da un incrociatore che aveva la funzione di proteggere la nave principale nel caso in cui quest’ultima fosse stata silurata. Inoltre ogni incrociatore possedeva tutti i mezzi necessari per rilevare la presenza di sottomarini. Io venni imbarcato sul Conte Rosso. Il mio cuore provava un misto di stupore, meraviglia e paura: di fronte a me vedevo un mare stupendo, migliore di quello che avevo visto a Terracina, delle navi grandissime che non avevo mai visto e che nemmeno immaginavo che esistessero. Il Conte Rosso era la più bella! Ma questo stupore e questa meraviglia erano offuscati dalla paura, dalla consapevolezza che il percorso che stavo per intraprendere probabilmente sarebbe stato pieno di ostacoli e di dolori ed un pensiero fisso occupava la mia mente: la mia famiglia, l’incertezza di poterla un giorno rivedere.
Una volta partiti, il comandante della nave, ci radunava a distante di qualche ora per spiegarci l’iter da seguire nel caso in cui la nave fosse stata silurata, precisandoci sempre di mantenere la calma visto e considerato che l’equipaggio aveva tutti i mezzi per salvarci.
L’ultima adunata è stata fatta alle 19, durante la quale ci vollero tranquillizzare comunicandoci che i nostri soldati aveva occupato l’Isola di Creta e pertanto il mare era più libero. Nello stesso tempo si raccomandarono però che, poiché stavano per passare vicino a Malta, nessuno doveva fumare per evitare che i nemici potessero vedere le sigarette accese e che tutti dovevano comunque indossare il salvagente.
Erano circa le 20 quando avvertii un malessere dovuto al mal di mare, pertanto mi misi a letto nella mia cuccetta con il salvagente bene allacciato. Il salvagente era sostenuto da quattro pezzi di sughero, che mi facevano male alla schiena. Non riuscii a dormire dal dolore, fintanto che decisi di togliermi il salvagente, che appoggiai vicino a me. Non l’avessi mai fatto. Appena mi sono accucciato sul mio giaciglio, la nave venne colpita da un sottomarino inglese. Mi alzo di corsa per indossare il salvagente ma incredibilmente non c’era più. Nel frattempo un altro siluro colpisce la nave, provocandole dei danni irreparabili.
Di corsa cerco il salvagente, ma la confusione era tanta, tutti erano diretti verso l’uscita per buttarsi a mare. Massima concentrazione, movimenti veloci e sguardi diretti alla ricerca del salvagente, dovevo assolutamente trovarlo. Ma in pochissimi secondi mi dovetti arrendere, ero senza salvagente. La disperazione sopraggiunse superando la certezza di potercela fare. Decisi di farla finita, mi puntai il fucile addosso. In quel preciso istante mi comparve il mio amico Giuseppe detto Peppino, che mi tolse dalle mani il fucile e mi invitò a buttarmi. Me lo ripetè insistentemente: “Buttati! Buttati! Buttati anche senza salvagente!”. Così feci. Il ricordo qua si ferma e riprende quando mi accorsi di trovarmi in acqua con il salvagente.
...
La nave affondò in soli otto minuti. Creò una grande voragine, portandoci tutti all’interno e poi una grande apertura che ci scaraventò lontano. Incessanti le urla di chi chiamava la propria mamma e chi invocava la Madonna. Per circa un’ora gli incrociatori bombardarono in profondità i sottomarini inglesi per evitare che quest’ultimi colpissero le altre tre navi. Dopo circa un’ora era tutto finito, quasi tutti morti, era rimasto soltanto l’eco delle onde del mare. Le altre navi furono salvate.
Verso, credo, le quattro della mattina ritornarono indietro quattro incrociatori e fecero un cerchio grande e ogni tanto buttavano qualche razzo di luce per vedere i superstiti. Ma il mare è così ambiguo che quando si avvicinava un’onda, l’incrociatore sembrava vicino, e quando ne arrivava un’altra sembrava che si fosse allontanato. Il grande freddo aumentava, mi colpiva ai denti, le gambe erano immobilizzate nell’acqua. Mi riprendeva la tentazione di sciogliere il salvagente ma poi il mio cuore mi rassicurava incoraggiandomi alla resistenza.
Ad un certo punto, finalmente venni recuperato dalla nave Procione. I marinai furono degli Angeli, misero un gommone nell’acqua e ci legarono e tirarono su. Siamo stati recuperati vicino al territorio africano. Ci misero nelle stive dove erano i motori perché c’era piu caldo. Non potete immaginare quanti morti c’erano accatastati all’interno. Il dolore mi struggeva il cuore quando riconobbi tra loro anche un caro amico di Perugia. Poi persi i sensi, mi accasciai per terra e da quel momento in poi non ricordo piu nulla. Soltanto dopo due giorni mi svegliai, mi trovavo in un letto dell’ospedale di Tripoli, cominciai a riacquisire memoria e lucidità. Piano piano mi ricordai tutta la tragedia. Mi misi a piangere, pianto ininterrotto senza respiro.
Dopo alcuni giorni ci riportarono in Italia, in un ospedale di Napoli. Io e quei pochi salvati eravamo irriconoscibili. Dallo spavento a tanti gli partì la parola. Mi ricordo che ci davano tutte le mattine un uovo e un bicchiere di marsala. La mia mente ed il mio fisico erano estremamente provati..."
Dal diario di Corrado Codignoni.
Dopo alcuni mesi Corrado venne sottoposto di nuovo a visita medica e giudicato idoneo. Sarebbe andato in Albania e poi in Russia, dove sarebbe caduto prigioniero, con altre sofferenze. Infine sarebbe rimpatriato dopo la guerra.
Continua...
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