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Scrivici |L'affondamento della corazzata Roma
Il varo della Roma il 9 giugno del 1940. Il giorno dopo l'Italia entrò in guerra. Due corazzate di questa classe erano già scese in mare. Immagine da "7 anni di guerra".
Genesi della bomba radioguidata
I tedeschi avevano bisogno di un’arma affidabile che fosse capace di distruggere le navi da battaglia di cui il nemico britannico era ampiamente dotato. Impiegare le artiglierie di un’altra nave equivalente era dispendioso e aleatorio, soprattutto improponibile per i tedeschi che avevano poche grandi unità. Bisognava trovare una soluzione meno impegnativa e più efficiente.
Il siluro aveva dimostrato notevole efficacia nell’affondare le navi da battaglia, ma bisognava superare la cintura di unità di scorta per metterne a segno molti, in quanto una corazzata moderna era dotata di numerosi compartimenti stagni e mezzi di compensazione degli allagamenti. L’obiettivo poteva essere meglio raggiunto colpendo la nave in un punto vitale, come i depositi munizioni del calibro principale, la cui esplosione avrebbe portato alla sicura distruzione. Oltre alla precisione era però necessaria la potenza di penetrazione, per superare le forti corazzature.
Il bombardamento in picchiata era preciso ma poco penetrante, oltre che ostacolato dalle difese contraeree. Solo un bombardamento da alta quota, lontano dalla portata della contraerea, avrebbe dato la sufficiente accelerazione in caduta fino a raggiungere la forza di penetrazione (mille chilometri all'ora) per una bomba perforante che esplodesse dentro la nave, accanto alle munizioni. Tuttavia da grande altezza si perdeva la precisione, per le variabili atmosferiche, e anche perché una corazzata in navigazione di guerra, a trenta nodi, aveva il tempo di spostarsi.
I progettisti tedeschi risolsero il problema rendendo la bomba governabile tramite timoni di coda, comandati via radio durante la caduta. Poiché la bomba sarebbe stata quasi invisibile all’approssimarsi del colpo, ormai distante chilometri dal bombardiere, un fuoco pirotecnico in coda l’avrebbe resa visibile, consentendo di trasmettere gli ultimi movimenti, azionati dal bombardiere con un comando, un joystick come per i videogiochi di oggi. Si trattava quindi di una apparente bomba a razzo dove in realtà il fuoco in coda aveva una funzione visiva e non propulsiva.
La bomba radiocomandata PC1400X (soprannominata “Fritz X”) sarebbe stata portata dai bombardieri Do.217 modificati, su cui si allenavano gli equipaggi nella primavera del 1943. Venivano addestrati a riconoscere le sagome delle navi, anche di quelle italiane. La bomba era lunga 3,26 metri e pesava 1570 chili di cui solo 320 erano costituiti da esplosivo ad alto potenziale. Tramite i comandi radio, che agivano sugli impennaggi, si poteva spostare il punto di caduta di 800 metri in avanti/indietro e di 400 metri lateralmente. Lo stesso gruppo della Luftwaffe impiegava anche la bomba HS293, leggermente più piccola e dotata di ali con un vero motore a razzo (oltre duemila cavalli), che poteva essere lanciata da quote inferiori e guidata per lunghi tratti, come fosse un velivolo.
Il 9 settembre 1943, a seguito dell’armistizio tra italiani e angloamericani, il gruppo bombardieri speciale ricevette l’ordine di decollare dalla base di Istrès (Marsiglia) per attaccare le navi italiane presso la Sardegna con le nuove bombe radiocomandate. Il comandante Steimborn di Stoccarda e Sumpf di Hannover erano tra gli aviatori.
Una corazzata della stessa classe della Roma (da una edizione della Gazzetta del Popolo sulla Marina Italiana del marzo 1941).
La Roma e la Flotta
Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, allora giovane guardiamarina sulla corazzata Roma, ha pubblicato di recente con Mursia un interessante e preciso diario che ci accompagna negli eventi del settembre 1943.
Catalano era al primo imbarco sulla Roma, la più nuova delle tre moderne e potenti navi da battaglia della flotta italiana (con la Vittorio Veneto e l’Italia, ex Littorio). L’ultimo gioiello della Regia Marina, di 46.215 tonnellate, con nove cannoni da 381 mm, aveva raggiunto la notevole velocità di 32 nodi nelle prove. La Roma aveva subito in porto a La Spezia gli effetti di almeno due bombardamenti americani (5 e 23 giugno 1943), compiuti con numerosi bombardieri quadrimotori, con danni non gravi, sfondamento di parti non vitali e una falla provvisoriamente tamponata. Nonostante la potenza delle bombe, questo tipo di bombardamento non era preciso e se colpiva una parte più centrale e veramente corazzata, come avvenne con la torre poppiera delle artiglierie, non aveva conseguenze.
In quei primi giorni di settembre si conosceva la drammatica situazione militare di un paese invaso, con la prospettiva della sconfitta e l’attesa di un impiego della Regia Marina, forse in un’ultima battaglia con il probabile sacrificio delle navi maggiori. L’ordine ricevuto di salpare per ignota destinazione significava dunque prepararsi al peggio. La notizia dell’armistizio colse tutti di sorpresa, con grande disorientamento, dallo scoramento degli ufficiali alla caduta della tensione combattiva negli equipaggi, con incertezze sugli ordini e le azioni che sarebbero state richieste: arrendersi ai nemici di ieri o difendersi dagli alleati di ieri divenuti nemici.
La sera del 8 settembre 1943 la Flotta sotto il comando dell’Ammiraglio Bergamini, a bordo della nave ammiraglia Roma, salpava da La Spezia per la Maddalena in Sardegna, seguendo gli ordini del Re, in attesa di conoscere istruzioni più precise. Al dramma di molti ufficiali, propensi più all’autoaffondamento che alla consegna delle navi, si affiancava il disordine degli equipaggi, impegnati in discussioni e supposizioni, deconcentrati rispetto ai loro compiti, forse convinti che la pace fosse arrivata e le armi non sarebbero più servite.
Giunta nelle Bocche di Bonifacio di giorno, la formazione si poneva in linea per il passaggio nei campi minati, ma invertiva bruscamente la rotta davanti a La Maddalena, perché era stata informata appena in tempo che la base era passata sotto controllo tedesco.
Dopo l’avvistamento di un ricognitore inglese, contro cui nessuno aprì il fuoco, vennero avvistati cinque aerei non identificati già sulla verticale in alta quota. Forse avevano appena superato la posizione per il lancio di ordigni tradizionali (troppo avanti per una traiettoria di caduta per gravità) e questo sembrava indicare che non avessero intenzioni aggressive. Le vedette non li avevano segnalati (conferma indiretta di una generale diminuzione dell’attenzione). In quel momento si vide una scia luminosa scendere velocemente fino ad associarsi con il sibilo di una bomba. Cadde in mare con un’alta colonna d’acqua: le corazzate italiane erano sotto attacco. Che gli ordigni fossero inglesi o tedeschi, non faceva gran differenza.
Ventotto Do.217, decollati da Istres, si erano diretti nelle Bocche di Bonifacio, divisi in più ondate. La prima ondata, comandata dal maggiore Jope, era divisa in pattuglie, di cui la prima comprendeva cinque bombardieri, una sola bomba per ogni velivolo. A questa pattuglia apparteneva il velivolo di Steimborn e Sumpf.
Arrivati sull’obiettivo i velivoli avevano rallentato al massimo per ottenere le condizioni ottimali di lancio, sulle corazzate italiane che procedevano in linea. Steimborn osservò il lancio del primo velivolo sulla seconda corazzata italiana, apparentemente colpita. Poi il secondo velivolo colpì in pieno la terza corazzata (la Roma) che ridusse visibilmente la velocità.
Steimborn si concentrò su questa come bersaglio ideale, incurante del fuoco contraereo perché era a più di seimila metri di altezza. Aveva ridotto la velocità del bombardiere, mentre il puntatore segnalava l’avvicinamento al momento di sgancio.
All’avviso, venne sganciata l’unica bomba PC1400X, azionando anche la macchina fotografica motorizzata per seguire la traiettoria e documentare il risultato. Dopo 42 secondi la nave fu centrata perfettamente.
In rosso i due punti dove la Roma fu colpita. Le zone tratteggiate rappresentano le principali corazzature (elaborazione di una immagine divulgativa pubblicata sulla rivista Tempo N.94 del marzo 1941).
A bordo
Catalano era prossimo al suo turno e visto l’attacco, si portò subito al suo posto di combattimento, direttore del tiro nella torre trinata di medio calibro (cannoni da 152 mm, non adatti al tiro antiaereo), a poppa sul lato sinistro. Era una posizione da cui potè osservare gli eventi senza danni, protetto dalla corazza.
La corazzata Italia (ex Littorio) si avvicinò molto alla Roma, per poi allontanarsi perché una bomba le era esplosa vicinissima a poppa e aveva bloccato temporaneamente i timoni.
Pochi minuti dopo, cadeva verso la Roma un’altra bomba di cui si poteva seguire la scia, fino a quando colpì violentemente la nave. La bomba aveva forato lo spesso ponte corazzato sul lato a dritta vicino al bordo, uscendo dalla fiancata ed esplodendo in mare sotto la carena. L’esplosione subacquea aveva provocato una falla, allagando e bloccando caldaie e macchine di poppa, e due delle quattro eliche. La velocità scese a 16 nodi e la nave cominciò ad inclinarsi a dritta, ma il sistema di compensazione automatica, o interventi manuali, limitarono subito l’inclinazione. La Roma poteva ancora salvarsi.
Sul ponte molti marinai si affollavano all'ingresso per entrare nel torrione corazzato, probabilmente per cercare riparo dietro le spesse corazze (senza immaginare cosa li attendeva). Il fragore dell’apertura del fuoco con i cannoni antiaerei (da 90 mm) e le mitragliere pesanti segnalava un altro attacco: la seconda bomba era visibile in tutta la sua traiettoria sempre più vicina.
La bomba perforò il ponte corazzato ed esplose nel deposito munizioni della torre n.2 del medio calibro. L’esplosione delle munizioni sfondò le vicine caldaie e probabilmente gli effetti combinati con il vapore bollente provocarono l’ulteriore deflagrazione del deposito munizioni di grosso calibro. L’enorme scoppio proiettò in mare l’intera torre trinata da 381, del peso di 1500 tonnellate. La colonna di fuoco avvolse l’altissimo torrione corazzato del comando e direzione tiro che si deformò accartocciandosi. Al suo interno doveva trovarsi l’Ammiraglio Bergamini e il suo Stato Maggiore. Pezzi di lamiere e parti della nave cadevano ovunque e i proiettili di tutte le armi scoppiavano, falciando gli uomini, i feriti e gli ustionati che vagavano sul ponte.
Catalano comprese che la nave era spacciata e ordinò al suo gruppo di uscire dalla torretta e mettersi in salvo. Da prora avanzava un muro di fiamme e di fumo nero, che saliva e copriva il cielo. Il fungo dell’esplosione saliva a cinquecento metri. Cercavano di ripararsi a poppa moltissimi marinai feriti a cui venne ordinato dagli ufficiali di buttarsi a mare, operazione facilitata dal fatto che nave era molto immersa e inclinata a dritta con il bordo del ponte ormai a pelo d’acqua. Con fatica vennero liberate le zattere fissate sopra la torre di grosso calibro di poppa: una si era schiantata cadendo sul ponte, mentre l’altra veniva messa in mare e subito assalita dai naufraghi. Cresceva l’inclinazione e l’idrovolante cadeva dalla catapulta, scivolando in mare. Rivoli di sangue dei morti e feriti solcavano trasversalmente la coperta di teak, scorrendo verso il lato di dritta. Diversi marinai erano irriconoscibili per le ustioni e coperti di sangue. Altri avevano profonde ferite da taglio.
Catalano si buttò a mare attaccato al suo furiere ferito, a cui aveva fermato l’emorragia e passato il proprio salvagente. L’acqua era calda e tutti vivevano le drammatiche situazioni tipiche di un naufragio. Chi era gravemente ustionato provava provvisorio sollievo al contatto con l'acqua. I marinai che si erano buttati a mare erano una scia di punti bianchi che la nave si lasciava dietro. Un centinaio di marinai era ancora a poppa. Improvvisamente la Roma si rovesciava, con molti che cercavano di aggrapparsi sulla chiglia, le eliche di bronzo ferme. La nave, lunga 240 metri e sottoposta a forte torsione, si spezzava nettamente in due: la poppa scivolava lenta e orizzontale sott’acqua, trascinando con sé i marinai vicini. La prora si sollevava verticalmente in alto e poi scompariva all’indietro. Con l’ammiraglio Bergamini persero la vita circa milletrecento uomini mentre furono recuperati seicento superstiti (vedi nota a fondo pagina).
Immagine successiva all'esplosione della seconda bomba, che condannò la nave (Corazzate classe Vittorio Veneto - Edizioni Bizzarri 1973)
Dopo...
I naufraghi vennero soccorsi abbastanza rapidamente, per la vicinanza delle unità di scorta, alcune delle quali, come il caccia Mitragliere, si avvicinarono senza attendere l’ordine di farlo.
Catalano fu recuperato proprio dal Mitragliere. Presero parte al salvataggio i caccia Fuciliere e Carabiniere, l’incrociatore Attilio Regolo, le torpediniere Pegaso, Orsa, Impetuoso.
L’improvvisa e completa scomparsa del gruppo di comando della nave ammiraglia costrinse alcuni ufficiali ad assumersi responsabilità inattese e fu necessario prendere importanti decisioni. Numero e gravità dei naufraghi feriti imponeva di dirigersi subito verso porti attrezzati come capacità ospedaliere e che fossero vicini, ma con alcune perplessità. Infatti, dopo l’accaduto, ogni porto italiano poteva riservare sorprese tedesche, come era avvenuto a La Maddalena, e d’altra parte dirigersi su porti neutrali, come alle Baleari, esponeva al rischio di internamento. Dirigere invece su porti occupati dagli angloamericani, come era negli ordini finali, creava altri dubbi sul destino delle navi. L’angoscia della tragedia si sommava quindi alle incertezze e preoccupazioni su cosa attendeva gli equipaggi e le navi, a seguito dell’armistizio. Le unità che si diressero verso le Baleari, dopo lo sbarco dei feriti si autoaffondarono, oppure rimasero bloccate e vennero internate. Il resto della flotta proseguì verso porti alleati, dove rimasero sotto controllo e disarmate, pur mantenendo la bandiera.
In quei momenti dell’armistizio affondarono anche i cacciatorpediniere Vivaldi e Da Noli: il primo rimase vittima di attacco aereo tedesco, con le bombe HS293, mentre l’altro saltò su un nuovo campo di mine britannico. Purtroppo i naufraghi del Da Noli per un malinteso non vennero soccorsi dai caccia che già si dirigevano con i feriti della Roma verso le Baleari e non furono trovati superstiti in una successiva ricerca. Anche la corazzata Italia era stata colpita dall’attraversamento di una bomba radiocomandata, che aveva prodotto una falla di metri 21 x 9 nella carena e altri danni, da cui entrarono circa ottocento tonnellate d’acqua, subito compensate con l’ingresso di altre quattrocento tonnellate dal lato opposto per mantenere l’equilibrio della nave.
Per meglio conoscere le eccezionali caratteristiche della Roma si suggerisce di consultare le pagine sulla descrizione delle corazzate della classe Vittorio Veneto .
Nonostante la complessità e l’alto livello di una imponente realizzazione tecnologica, bastava una bomba (sia pure sofisticata) per annientarla. Uno stupefacente risultato che poneva seri dubbi sul futuro delle navi da battaglia, per la vulnerabilità rispetto all’enorme investimento. Il dato di fatto suggeriva un modo diverso di impostare la guerra sul mare. Anche le bombe americane erano ormai in grado di perforare le corazzature orizzontali: nel caso della Vittorio Veneto a La Spezia, avevano attraversato un totale di 21 centimetri di acciaio.
E’ infine interessante notare il diverso modo con cui angloamericani, italiani, tedeschi avevano affrontato il problema di distruggere le navi da battaglia. Gli angloamericani avevano puntato ad una soluzione di forza, con un gran numero di potenti ordigni, soluzione probabilistica adatta alle caratteristiche della loro abbondante aviazione. I tedeschi avevano preferito una soluzione sicura e tecnologica, congeniale al loro primato e alla loro mentalità. Gli italiani preferirono invece una soluzione insidiosa o subacquea, basata su operatori coraggiosi: un approccio basato però sulla sorpresa e non facilmente ripetibile.
Sono state pubblicate molte testimonianze dei superstiti sull'affondamento della Roma. In questa pagina abbiamo ritenuto di preferire il libro “Per l’onore dei Savoia” di Arturo Catalano Gonzaga di Cirella – Mursia 1996, che ebbe la fortuna di non rimanere ferito e quindi fu in grado di avere memoria nitida dell'accaduto. Tale diario si avvale anche dell'interessante ricostruzione compiuta tramite l'aiuto tedesco. Infatti Catalano, con altri superstiti, nel 1993 incontrò a Roma gli aviatori tedeschi Steimborn e Sumpf, da cui ascoltò il racconto della loro missione. Esaminarono assieme le fotografie aeree dell’azione.
Tra le pubblicazioni che descrivono l'affondamento si possono citare:
"Settembre nero" di Antonino Trizzino - Longanesi - 1968
"Corazzate classe Vittorio Veneto" di F.Bargoni e F.Gay - Ed.Bizzarri - 1973.
"Marinai in guerra" di G.Alfano, Ferrando, Cerrato, Battaglini - Ed.Blu - 2002.
Nell'abbondante materiale sull'argomento si trovano ulteriori dettagli e talvolta differenze.
In particolare variano le cifre dei caduti e dei superstiti e non è facile farle quadrare con il totale del personale effettivamente a bordo (quasi duemila uomini, sulla nave ammiraglia della flotta con lo Stato Maggiore). Si cita spesso un numero di 597 (o 622) superstiti, mentre il numero delle vittime oscilla tra 1252 e 1352(inclusi 86 ufficiali e 2 ammiragli). Le variazioni su questi dati possono essere dovute al fatto che una parte dei superstiti raccolti non sopravvisse alle ferite (molti ustionati gravi), e al possibile equivoco di considerare come "equipaggio" i marinai, con o senza gli ufficiali. Chi avesse fatto dei calcoli per differenza può essere incorso in errori. D'altra parte anche per le vittime e superstiti dell'Incrociatore Trento si incontrano notevoli variazioni sulle cifre.
Per la Roma si parla spesso di “esplosione” del deposito munizioni, mentre alcuni precisano che si trattò di “deflagrazione”, ovvero di combustione dell’esplosivo con dilatazione progressiva. In effetti la Roma non si spezzò per scoppio delle munizioni (come avvenne ad altre navi) ma per rovesciamento e affondamento.
Ogni esplosivo, all’accensione, produce una enorme e veloce dilatazione che incontra prima o poi un ostacolo, come un involucro circostante, raggiungendo elevatissime pressioni e temperature che alla fine sfondano l’ostacolo con un violento e rumoroso scoppio. Così avviene nelle mine e bombe dove l’involucro amplifica con lo scoppio la potenza distruttiva dell’esplosivo.
Nelle munizioni la dilatazione dell’esplosivo deve invece spingere il proiettile nella canna con una progressiva accelerazione e quindi si tratta di esplosivo a più lenta combustione. In particolare le armi navali di maggior calibro hanno il proiettile (che va sul bersaglio) nettamente separato dalle cariche di lancio (non stanno insieme in un bossolo metallico come nelle armi leggere). Nel deposito munizioni della Roma l’esplosivo era in gran parte costituito da cariche di lancio, non protette e sensibili, che forse si accesero per simpatia di esplosioni contigue. La loro progressiva ma enorme dilatazione avrebbe certo fatto a pezzi lo scafo della nave se la particolare conformazione dei locali non le avesse fatte sfogare nella seconda torre dei cannoni. Queste torri rotanti sono semplicemente appoggiate e tenute ferme dal loro stesso peso. La torre da 1500 tonnellate volò quindi in mare come un tappo di sughero. Al posto dello “scoppio” ci fu una immensa deflagrazione con un forte spostamento d’aria e intenso calore (descrizione riscontrabile in molte testimonianze) che provocò comunque fatali distruzioni e strage dell’equipaggio.
Continua...
"Per l'onore dei Savoia; 1943-1944: da un superstite della Corazzata Roma" di Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, Editore Mursia - 1996, racconta l'esperienza dell'autore.
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